2016-05-22 08:30:00

Pakistan: cristiani perseguitati, ma vanno in chiesa più di prima


L'esercito pakistano ha affermato di aver ripreso il controllo dell'ultima roccaforte talebana nel Waziristan del Nord, a ridosso del confine afghano. I jihadisti sarebbero stati sconfitti dopo pesanti bombardamenti. Nel Paese, tuttavia, resta alto il pericolo integralista. Lo sanno bene le minoranze religiose, spesso perseguitate anche per via legale, come nel caso della legge sulla blasfemìa. Sono molti i cristiani, come Asia Bibi, ancora in carcere perché accusati ingiustamente di aver detto qualcosa contro l'islam. I religiosi cattolici promuovono in questo contesto la convivenza pacifica tra ragazzi musulmani e cristiani, in particolare nelle scuole. Valentina Onori ha raccolto la testimonianza di suor Rifat Arya, delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret:

R. – Noi diamo sempre la preferenza ai poveri. Non siamo solamente noi che "facciamo" la misericordia agli altri, ma sono anche gli altri che la fanno a noi, con il loro stile di vita, i loro valori e anche con la loro semplicità. Non dobbiamo guardare solamente ai territori, ma anche alle persone: questo è molto importante. La persona è importante e lo è in tutta la missione della Chiesa e in tutti i rapporti interpersonali. Guardiamo la persona e chi aiutiamo. Nella nostra realtà - il Pakistan - è vero che c’è tanta povertà materiale, ma al tempo stesso c’è anche tanta ricchezza spirituale. Ed è questa la cosa più bella: che a partire da tutta la sofferenza e con la persecuzione dei cristiani in atto, la gente continua ad andare in Chiesa e anzi ci va più di prima. È questa la fede che è come una roccia: non è solamente dire e poi non fare. Oggi invece c’è bisogno di vivere la fede nel concreto.

D. – Come si può rinnovare la Chiesa, partendo da queste periferie?

R. – Uscendo da noi stessi: non una passeggiata, ma un’uscita significativa, che lasci un qualche messaggio all’altro. Quando trovi una famiglia, un bambino, un ragazzo, una qualunque persona che si trova nel bisogno, mostrare prossimità verso l’altro: questo vuol dire uscire da noi, come Chiesa, come cristiani. Questo è uscire da noi stessi, come Chiesa, come congregazione, come cristiani: verso l’altro. Non considerare l’altro come una persona estranea, ma uscire verso l’altro perché è mio fratello!

D. – Qual è l’esperienza che vivete come congregazione in Pakistan, in concreto, nella vita di tutti i giorni?

R. – Riceviamo le famiglie, la gente, nel dispensario per esempio, nell’area della salute. E questo dispensario funziona come un ospedale. Ogni giorno più di 100 persone vengono nella nostra casa. E questa è l’esperienza più concreta che si possa fare: consolare una persona ferita. Quando andiamo a visitare i villaggi, la gente vuole parlare, raccontare la loro storia, le loro ferite, così come le loro gioie. E questa è la vicinanza per noi: tante volte non è quello che dai, perché la gente non chiede questo, ma chiede di pregare per loro.

D. – È più difficile sanare le ferite della “periferia pratica” o della “periferia esistenziale”?

R. – Credo che sia più difficile sanare le ferite della periferia esistenziale. Dal punto di vista materiale, forse possiamo dare qualcosa alle persone; ma quando si tocca la loro vita e la loro storia, il curare in questo caso prende più tempo, prende più tempo l’avvicinarsi all’altro e farlo esprimere anche. Perché tante volte non è facile che l’altro riesca a parlare della sua vita.








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