2016-06-16 10:14:00

Giornata bambino africano. Amref: insegnare loro a sognare


Era il 16 giugno del 1976 quando migliaia di studenti di Soweto, in Sudafrica, scesero in piazza per protestare contro la scarsa qualità dell'insegnamento dei neri sotto il regime dell'apartheid e contro il decreto che imponeva alle scuole di usare l'afrikaans come lingua paritetica all'inglese. Al grido di "Non sparateci - non siamo armati", quei ragazzi vennero uccisi dalla polizia. Da allora la storia dell'Africa e degli africani non fu più la stessa, da lì iniziò la lenta erosione dell'apartheid. Per ricordare le vittime, dal 1991, l'Organizzazione per l'Unità Africana prima e poi le Nazioni Unite, hanno indetto la Giornata del bambino africano, un'occasione per tenere alta l'attenzione sulle condizioni di vita di bambini e ragazzi nel continente. "C'è ancora tanta strada da fare" sostiene Guglielmo Micucci, direttore della sezione Italia di Amref Health Africa, in un continente immenso come l'Africa in cui ancora oltre 45 milioni di ragazzi non vanno a scuola. Al microfono di Valentina Onori il direttore di Amref Health Africa spiega le difficoltà e le iniziative in corso per i bambini "chokora", gli scarti, come vengono definiti dalle stesse comunità locali:

R. – C’è ancora tutto un problema di mancanza di accesso alle infrastrutture sanitarie primarie: tre milioni di bambini sono morti nei primi cinque anni di vita per mancanza di assistenza sanitaria primaria. Così come tutto l’ambito dell’educazione porta a considerare quelle generazioni, come purtroppo spesso viene detto, come quelle ormai “perse”, perdute.

D. – Nell’area sub-sahariana oltre 45 milioni di ragazzi non vanno a scuola: è cambiato molto poco da Soweto

R. – È impensabile che il 60 % dei bambini nasce ancora in casa. Questi bambini non hanno accesso alla scuola: soprattutto le bambine. Quello che noi proviamo a fare è colmare quel gap.

D. – In che modo state lavorando?

R. – Portiamo avanti ormai da anni un Centro di recupero di ragazzi di strada nello slum di Dagoretti. Lì i ragazzi di strada vengono chiamati “immondizia” (chokora). Già questo è significativo di come vengono considerati anche da parte delle comunità di appartenenza. Un paio di mesi ero proprio lì in Kenya; parlavo con un ufficiale di polizia e lui non riusciva a comprendere l’importanza del lavoro che noi stavamo facendo. E lui diceva: “Perché destinate questi sforzi? Sono ragazzi “persi”. Ed è proprio lì che dobbiamo inserirci; per dare una risposta oggi, per permettere a quei bambini, tra 20 anni, di autodeterminarsi e poter essere loro i leader di quei Paesi. Stiamo portando avanti delle attività in collaborazione con la Trentino Volley, una squadra di pallavolo molto famosa qui in Italia. Da quando abbiamo aperto il Centro, si sono avvicinati lì ben 26.000 bambini.

D. – Qual è il futuro per questa generazione?

R. – Passa attraverso la possibilità di autodeterminarsi. Il continente africano non è un Paese: è un continente, enorme, pieno di ricchezze. Se non passa attraverso di lì il futuro del mondo, allora la vedo critica non solo per l’Africa ma per il mondo intero.

R. – Quanto crede che siano utili queste Giornate, al di là delle etichette?

R. – Penso che sia molto importante che si riesca a creare una forte collaborazione tra noi e media. Per noi sono, sì, dei momenti di celebrazione, ma cerchiamo anche di fare emergere quali sono le problematiche, ma non solo, anche le cose che funzionano in un continente come quello africano. Dall’altra parte, un atteggiamento dei media che deve facilitare il passaggio di questi messaggi: sono importanti soltanto se c’è un lavoro combinato, perché altrimenti rischiano di rimanere delle cose formali. Quindi il parlarne è già fondamentale.

D. – Attraverso le vostre attività ci sono risultati visibili, concreti?

R. – Assolutamente sì. Noi abbiamo fatto in passato attività di formazione di video maker. Alcuni ragazzi, che erano i cosiddetti beneficiari di quell’intervento. Oggi, portano avanti con professionalità il loro essere registi al servizio delle tv locali, dell’associazionismo che ha bisogno di documentare; erano loro i videomaker, non eravamo noi nella solita accezione occidentale.

D. – E ha notato delle differenze nei risultati e nell’inquadratura di una realtà diversa rispetto alla nostra?

R. – C’è tutto un pezzo di umanità che noi non riusciamo a rappresentare non vivendo in prima persona determinate emozioni e momenti, la vita quotidiana di quei luoghi. Noi possiamo portare la professionalità. Loro al contrario in quello che fanno ci mettono un’anima.

D. – Nella formazione della persona, prima che delle professionalità, quali difficoltà incontrate?

R. – La prima è quella di riuscire ad intercettarli; creare una relazione con loro; e da lì far sì che si crei il bisogno di venire al Centro. Una volta fatto questo iniziano tutta una serie di attività formative, sull’emersione delle competenze, dei desideri, dei sogni.

D. – Quali sono i desideri di questi bambini?

R. – Poter decidere della loro vita; poter riuscire a sognare in realtà. Quello che Amref prova a fare è aiutarli a rendersi conto che il desiderio e il sogno sono una cosa della quale sono degni e poi una cosa raggiungibile.

D. – L’immagine iconica degli scontri di Soweto era un bambino, Hector Pieterson, che poi fu ucciso dalla polizia. Quale potrebbe essere l’immagine iconica per ricordare i bambini africani, il 16 giugno 2016?

R. – Sicuramente un bambino che nasce: il primissimo istante della sua vita, perché è lì che si determina il futuro dell’Africa. Quello che noi facciamo da tanti anni è lavorare proprio sulla salute materna-infantile: il bambino che nasce, che riesce a fare il primo pianto e viene messo nelle mani di una madre che sopravvive al parto, è una delle poche chiavi che possono veramente costruire un futuro nuovo e diverso.








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