2016-07-09 07:00:00

Iraq. Sale a 50 morti il bilancio dell'attentato contro il mausoleo


In Iraq sale a 50 morti e oltre 40 feriti il bilancio del duplice attentato avvenuto ieri notte a nord di Baghdad ad opera di miliziani armati contro un mausoleo sciita. L’attacco è stato compiuto da due diversi commandi, il primo ha colpito l’ingresso del recinto sacro ed il secondo ha agito all’interno sparando su guardie e civili. Il sedicente Stato Islamico ha rivendicato l’attentato che si è compiuto a distanza di pochi giorni dall’ultimo feroce attacco a Baghdad in un quartiere prevalentemente sciita, che ha visto la morte di oltre 290 persone e 200 feriti. Il conflitto storico tra sciiti e sunniti potrebbe essere uno degli elementi su cui si inseriscono questi ultimi eventi sanguinari. Poco più di una settimana fa il governo di Baghdad, in prevalenza sciita, ha ripreso il controllo di Falluja, roccaforte dei sunniti e dell’Is. La guerra contro l'Occidente e i conseguenti attacchi terroristici potrebbero essere, dunque, solo parte di un conflitto ben più strutturato che ha origine pregresse. Gioia Tagliente ne ha parlato con Massimo Campanini orientalista e studioso delle culture islamiche: 

R. – Io credo che il conflitto fra sunniti e sciiti sia una motivazione esteriore: credo che l’Is o chi per esso abbia essenzialmente intenzione di destabilizzare ulteriormente un Paese già fragile, che rimane in piedi così surrettiziamente. Quindi è chiaro che si cerca di scatenare le ire e le rivalità interne tra le varie comunità.

D. – Come nasce il conflitto tra sciiti e sunniti?

R. – E’ una realtà moderna, perché sunniti e sciiti hanno convissuto insieme per secoli. Il problema si è presentato quanto si sono opposte le duplici tendenze egemoniche dell’Iran, da parte sciita, e dell’Arabia Saudita, da parte sunnita. Queste tendenze egemoniche si sono, quindi, scontrate e hanno consentito la strumentalizzazione dell’opposizione dogmatica, dottrinale tra le due correnti.

D. – Quali sono le motivazioni di questo scontro?

R. – All’interno dell’Iraq sono motivazioni che riguardano il desiderio, secondo me, di destabilizzare il regime interno. Le differenziazioni dottrinali tra sunniti e sciiti sono molto profonde, però non sono state per secoli motivazione di scontro a livello di guerra religiosa. Gli scontri tra sunniti e sciiti sono sempre stati – quando ci sono stati – politici. Ancora oggi hanno una valenza e un significato politico. Ripeto: quello interno all’Iraq da parte degli attentatori è destabilizzare un regime e uno Stato fragile che si regge precariamente; per quanto riguarda il quadro internazionale, tutto deve essere letto nell’ottica della lotta egemonica tra l’Iran che è sciita, e l’Arabia Saudita che è sunnita.

D. – L’Is e la guerra religiosa contro l’Occidente è solo la punta dell’iceberg?

R. – Non bisogna enfatizzarne il carattere religioso. I cristiani sono convissuti per secoli in Medio Oriente insieme ai sunniti, insieme agli sciiti: non c’è mai stata una guerra dichiarata contro i cristiani in quanto tali. Quello che avviene adesso è un motivo e una questione politica che viene utilizzata in chiave settaria, ovviamente in obbedienza a questi profili, a questi scopi, a questi obiettivi di carattere egemonico o destabilizzante, ma non è una questione che deve essere letta come una guerra di religione: è una guerra politica. C’è una strumentalizzazione della religione a fini politici: che coinvolga i sunniti, gli sciiti o i cristiani, il discorso è sempre quello.

D. – Ipotizza una fine di questo conflitto?

R. – A mio avviso a breve termine no! Per quanto riguarda il conflitto iracheno è chiaro che una vera e propria soluzione può venire soltanto da una federalizzazione dello Stato e chiaramente da una eliminazione dell’Is e delle organizzazioni estremiste che operano in questi Stati disgregati, come l’Iraq o la Siria. Bisogna risolvere il nodo dell’Is. Dal punto di vista militare, se ci fosse una volontà politica delle potenze occidentali, compresa la Russia, sarebbe facilmente raggiungibile. Il problema è che bisogna che ci sia appunto una volontà politica.








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