2016-07-15 08:39:00

Attentato a Nizza come Israele e Palestina


L'attentato di Nizza segue la stessa modalità usata molte volte in "Israele e Palestina". Così l'analista militare e strategico Alessandro Politi, direttore della Fondazione Nato: 

R. – L’arma principale dell’attacco è stato il camion stesso, che è stato affittato. La modalità, purtroppo, si è già vista in Israele e in Palestina, soprattutto con delle auto e, fortunatamente, con effetti meno devastanti. La persona era conosciuta dalla polizia non per questioni di radicalizzazione, ma per questioni di microcrimine. Questo però non stupisce, perché tutto un ambiente di potenziali terroristi parte dal mondo della piccola criminalità e non passa più per le tradizionali moschee. La radicalizzazione, infatti, come noi abbiamo potuto vedere, è molto più rapida e, in realtà, non si interessa tanto delle questioni religiose quanto di dare un senso a delle vite che spesso lo hanno perso. C’è gente che, veramente - per fortuna una minoranza infima - si illude che attraverso il gesto terroristico possa riprendere una vita piena di senso per un ideale apparentemente grande, che invece è una trappola.

D. - Purtroppo la Francia si conferma luogo privilegiato per questo tipo di attacchi…

R. – Ci sono due problemi. Innanzitutto, la nascita di questa ondata di terrorismo viene da lontano. Non si possono abbandonare a se stesse le banlieue per decenni e non capire che lì si è creato il brodo di cultura favorevole ai reclutatori terroristi. Si è rotto il patto sociale della Repubblica francese con una fascia vasta di cittadini disagiati e bisogna capire poi che la quantità di soggetti potenzialmente pericolosi è tale, che ha ormai da almeno un quinquennio debordato le capacità dei servizi di sicurezza interna. Probabilmente, i responsabili della sicurezza francese dovranno capire come meglio ridistribuire e anche eventualmente ridurre l’impegno in alcuni settori delle forze dell’ordine, in modo da non essere a livello di guardia come sono adesso.

D. – E’ possibile in qualche modo alzare il livello della prevenzione per evitare questi attacchi?

R. – Si può fare, ma le reti informative in questi ambienti, come del resto negli ambienti mafiosi che sono ancora più pericolosi anche se suscitano meno allarme sociale, non si creano dal nulla. Poi, soprattutto, non ci si può illudere che soltanto con la sicurezza e con la rassicurazione pubblica il problema venga risolto. Bisogna riprendere una politica di bonifica a fondo, quindi sociale, di recupero sociale di vasti settori, dove il disagio è profondissimo e quindi la sirena del terrorismo ha decisamente porte più aperte. Questo va fatto anche nelle carceri, perché se non c’è un meccanismo di dissociazione e di recupero dei terroristi o dei mafiosi, le carceri sono semplicemente delle scuole di alta formazione del crimine e del terrorismo.

D. – E questa è una strategia cui è chiamata l’Unione Europea, appena scossa dalla Brexit, che deve però trovare una forte unità su questo fronte…

R. – La prima forte unità va trovata a livello delle classi dirigenti nazionali che troppo spesso pensano a rassicurare anziché a risolvere. Bisogna smetterla con alcuni miti per cui basta mettere la gente in carcere, buttare la chiave e il problema è risolto. E’ un lavoro complessivo, è un lavoro che richiede impegno sociale e quindi anche civico da parte di tutti. E questo non solo per il terrorismo, ma ancor di più per il crimine organizzato.  








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