2016-08-19 10:30:00

Giornata umanitaria: la testimonianza di un operatore Caritas


Il 19 agosto si celebra la Giornata mondiale umanitaria per ricordare quanti, ogni giorno, aiutano milioni di persone in tutto il mondo, affrontando spesso pericoli e avversità. La Giornata è stata scelta dall’Assemblea generale dell'Onu in ricordo dell’anniversario del bombardamento della sede delle Nazioni Unite a Baghdad nel 2003, in cui morirono 22 persone, ed è dedicata in particolare a coloro che rischiano la vita al servizio degli altri. Ma cosa vuol dire essere un operatore umanitario? Marina Tomarro ha raccolto la testimonianza di Giuseppe Pedron, da dieci anni in Sri Lanka come coordinatore dell'Asia meridionale per la Caritas Italiana:

R. – Innanzitutto, significa fare una professione con passione e, facendo ciò, mettersi al servizio: ovvero l’importante, per quanto ci riguarda, è mantenere un approccio sempre vicino alle persone e non dimenticarsi mai che il lavoro che facciamo deve essere per il beneficio delle persone, di chi soffre, gli ultimi, i poveri e gli emarginati. E questo significa essere disponibili, ma competenti, perché il cuore da solo non basta e nemmeno solo la testa. Spesso trovare il giusto mix tra le due cose non è semplice, ma questa è la sfida che ci troviamo di fronte ogni giorno e ogni volta che facciamo le varie attività a cui ci porta il nostro lavoro.

D. – Come nasce l’idea di diventare un operatore umanitario?

R. – Per quanto mi riguarda nasce da un sogno: conoscere l’Asia e dedicarmi agli ultimi e a chi aveva bisogno. E quindi è una strada segnata, quella verso questa professione, che si costruisce giorno dopo giorno; una scelta che poi nel mio caso è stata condivisa anche da mia moglie Cristina, dalla nostra famiglia. Siamo tutti insieme e questa diventa veramente una pienezza di vita.

D. – Quanto ha influito la fede in questa scelta lavorativa e di vita?

R. – La fede ha influito molto nel desiderio di essere vicini alle popolazioni più emarginate e quindi di essere testimonianza di presenza evangelica. È una fede che nel tempo è maturata e che produce un cambiamento nella vita degli altri e nella propria. 

D. – Quali sono i vostri compiti? Cosa fate in Sri Lanka?

R. – Il nostro compito è quello di accompagnare nello specifico Caritas Sri Lanka nel percorso di crescita e autonomia; essere indipendenti nello svolgere i programmi; lavorare con i partner in tutta l’Asia; concordare le strategie; decidere come spendere al meglio i soldi che i donatori danno a beneficio delle persone emarginate, affinché vengano spesi bene, in maniera efficace, e portino beneficio alle popolazioni in maniera funzionale e trasparente. Questo significa una varietà di compiti: dalla progettazione, la verifica, fino al rapporto con i partner, insieme con la conoscenza e la visita di tutte o di molte delle realtà di povertà. Si pensi ultimamente al Nepal terremotato: il nostro compito è quello di andare dalle comunità, capire le problematiche e costruire dei percorsi di ricostruzione e riabilitazione.

D. – Quali sono le urgenze di queste popolazioni che lei aiuta?

R. – In generale, direi che l’urgenza è quella di integrare gli emarginati e quindi far sì che gli ultimi, che non sono solo poveri emotivamente ma anche di possibilità – ossia chi si trova in situazioni di estrema povertà o con poche possibilità di contatto con altre realtà – possano far parte della società. La società non vuole vedere l’esistenza della povertà e preferisce invece seguire i soldi.

D. – Ci sono state situazioni in cui avete avuto paura, timore o dubbi?

R. – Sì, dubbi sull’efficacia del nostro lavoro e su come viene fatto ne abbiamo – per fortuna! – spesso. E questo ci aiuta a perfezionarci, a interrogarci e a pensare strategie diverse. Abbiamo anche paura qualche volta; penso recentemente alla seconda scossa di terremoto in Nepal: proprio in quei giorni ero a Katmandu. E quindi sì, c’è la paura fisica, dell’insicurezza; e soprattutto in questo modo si percepisce la paura delle popolazioni. Perché poi noi torniamo nei nostri posti, siamo al sicuro, abbiamo la possibilità di prendere un aereo e ripartire; ma c’è invece chi vive in questa povertà tutti i giorni. La paura della guerra poi: durante quella in Sri Lanka – indubbiamente – abbiamo condiviso, anche se per pochissimo, l’insicurezza delle popolazioni sotto le bombe nelle trincee. E spesso ci sono varie situazioni in cui ci si trova a contatto con l’estrema povertà, che ci interroga e ci mette a disagio.

D. – Come siete accolti dalle popolazioni locali?

R. – Normalmente molto bene. L’accoglienza iniziale è di apertura. Poi il fatto di vivere insieme, di condividere e di stare per mesi o anni in un posto, ci aiuta a stringere anche relazioni e a vedere quindi sia l’accoglienza, ma anche la difficoltà nell’integrare culture e modi di fare diversi.

D. – Tutta la vostra famiglia è in Sri Lanka. Ma i figli come vivono questa situazione?

R. – Vivono anche loro la difficoltà, a volte, di essere stranieri in una terra, nonostante ci siano nati e parlino perfettamente la lingua. D’altro canto, però, vivono l’esperienza dello stare con i bambini del villaggio e quindi della libertà di molte cose. Anche per loro questa è una bella esperienza, di sicuro di apertura e anche di creazione di una identità culturale che poi si farà nel tempo.








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