2016-09-02 14:43:00

Le suore del Divino Amore di Rieti aprono ai terremotati


Numerosi collegi religiosi hanno messo a disposizione i propri spazi per ospitare gli sfollati del terremoto che ha colpito il Centro Italia. Tra questi, l’istituto del Divino Amore, a Rieti, già dalle prime ore successive al terremoto ha aperto le porte ai sopravvissuti, diventando un rifugio per 12 persone. Le suore si occupano di provvedere ai beni di prima necessità per le tre famiglie accolte. Non chiedono nulla sulle loro storie, ma li ascoltano assistendoli nel dolore. Non si accostano agli sfollati con troppe parole, ma con la vicinanza della fede. Maria Carnevali ha intervistato suor Luigina Visini, responsabile dell’istituto:

R. – Abbiamo dovuto provvedere immediatamente a vestirli, cambiarli, perché sono venuti subito dopo quanto è accaduto. Avevano indosso indumenti sporchi, lacerati… E quindi abbiamo dato loro tutto quello di cui avevano bisogno, a cominciare dall’intimo. Poi anche lenzuola, coperte, asciugamani, senza far pesare loro nulla. Abbiamo immediatamente provveduto a rispondere alle necessità del momento, anche se poi abbiamo dovuto adeguare l’intimo e i vestiti alla loro persona. Infatti, dei vestiti erano arrivati ma non tutti adeguati. E poi abbiamo anche cercato di usare tanta delicatezza, perché era gente che non aveva più nulla se non i vestiti indosso, che aveva perso tutto: qualcuno anche le persone, i propri affetti…

D. – Come la fede può dare conforto e anche coraggio ai sopravvissuti?

R. – Questo è un momento molto delicato, in cui le spiegazioni verbali non si possono dare. Abbiamo cercato di avvicinarli soltanto con l’affetto e l’amore, facendoli sentire accolti e rispettati come persone nel loro dolore. Nell’Istituto ospitiamo la mamma di Elisa Caponi, la bimba di 17 mesi che è morta sul colpo: figlia unica, la mamma e il papà anch’essi feriti. Lei sente un dolore talmente grande che a volte piange silenziosamente. E dice: “Non mi dice niente…”. Allora noi la abbracciamo, stiamo con lei, le stringiamo le mani: le uniche cose che possiamo fare, perché non ci sono parole. Gli altri cercano in qualche modo di reagire. Tuttavia, a due giorni dal terremoto è stata soprattutto la famiglia con disabilità in preda a un delirio perché voleva tornare a casa, perché anche se la nostra casa è accogliente, non è la “loro” casa. Il tornare a casa è un sentirsi di nuovo nella normalità, una cosa che non avranno mai più. Ed è difficile per noi far capire loro tutto questo: è una famiglia di disabili e sicuramente dovrà essere divisa. Questo sarà per loro un ulteriore “terremoto”, perché i figli verranno staccati dai genitori. I genitori saranno messi in una struttura di Rsa e i ragazzi probabilmente in un altro centro. Io vorrei tenerli il più tempo possibile: lunedì riapro la scuola – ho una scuola dell’infanzia – e ho detto loro, cercando di tranquillizzarli, che non c’è nessun problema e che in qualche modo avremmo fatto. Far subire loro un altro trauma con questo cambiamento: penso che questo sia un ulteriore “terremoto” per loro.

D. – Come dare un aiuto che sia nella continuità e non solo quindi nella immediata urgenza?

R. – Quello che noto è che c’è stata una risposta veramente grande, con un aiuto su tutti i fronti. Noi abbiamo un operatore che cambia ogni quattro ore: le persone non sono mai lasciate sole, neanche la notte. Abbiamo poi l’assistenza dei sacerdoti, che vengono, stanno un po’ di tempo con queste persone. Ci sono i volontari che vengono a cucinare: noi mettiamo a disposizione la cucina della scuola e la mensa. Abbiamo dato loro pasta, olio, carne, verdura, frutta: beni di prima necessità, di cui è necessario rifornirsi quotidianamente. Qualche volta questi alimenti ci arrivano e a volte siamo noi che li prendiamo. A noi interessa che queste persone sentano che c’è una casa – “la casa comune” come dice il Papa – e noi abbiamo cercato di costruirne una del genere. Siamo tutti fratelli ed è questo il momento in cui la fratellanza e l’apertura all’altro possono esprimersi al meglio e in cui si può vivere. Perché poi, se non lo facciamo noi che abbiamo fatto una scelta di vita, chi lo deve fare? Io in questo credo, e tantissimo.

D. – Si riesce a donare Gesù Cristo a queste persone?

R. – Penso di sì. Perché queste persone quando ci incontrano ci dicono: “Meno male che ci siete, che state con noi”. Quindi, attraverso di noi arriva Gesù. Poi, fortunatamente, questa settimana è venuto da noi un sacerdote che stava facendo il cammino di San Francesco. È capitato da noi proprio nel giorno in cui queste persone sono state portate nel nostro istituto. Il sacerdote doveva ancora fare circa sei tappe per arrivare a Roma e invece ha interrotto il pellegrinaggio e si è fermato con noi fino ad oggi. Ha confessato le persone, ogni giorno celebrava l’Eucaristia. Io sono stata anche ai funerali martedì e ho visto il dolore impietrito di chi veramente, tra le salme, non aveva più né parole né lacrime. Ed è stata una cosa che non dimenticherò mai: gli occhi di quel bimbo di sette anni, rimasto solo con il papà, che abbracciava il cuscino con la foto della mamma. Quel bambino aveva perso anche la sorella e la nonna oltre che la mamma. Sono cose che non puoi dimenticare, ma puoi solo pregare e affidarli al Signore. Perché questa è una prova per l’intera umanità e non solo per quel paese e quella gente.

D. – Ora iniziate anche la scuola: come spiegare questo anche ai bambini?

R. – I bambini parlano da sé. A queste persone abbiamo già detto che ci saranno i bambini nel giardino e loro di questo sono molto felici, anche perché così potranno giocare con loro. La relazione che avverrà sarà quella che darà spiegazione a loro e a noi di come aiutare i bambini a capire il passaggio.








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