2016-09-16 13:25:00

Giovane suicida dopo video web. Giaccardi: educare alle relazioni


Ha innescato un articolato dibattito sul mondo digitale la tragica storia della giovane donna suicidasi dopo la pubblicazione in rete, a sua insaputa, di un video hot in cui era consapevole protagonista. Ad ucciderla sono stati anche gli insulti e le offese scattate sui social media. I funerali si sono celebrati ieri nella chiesa di San Giacomo a Casalnuovo. Durante l’omelia il parroco, don Peppino Ravo, ha chiesto di “pregare per la conversione di chi vive nella malvagità”. Cosa ci insegna questa triste vicenda? Amedeo Lomonaco lo ha chiesto alla prof.ssa Chiara Giaccardi, sociologa e docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore:

R. – Io credo almeno due cose. La prima è che la Rete è una sorta di palazzo di vetro: noi pensiamo di parlare nell’orecchio di un amico, ma stiamo parlando in una piazza affollatissima. E questo sottrae ciò che noi postiamo - questi contenuti generati dall’utente - dalla nostra intenzionalità comunicativa, dal nostro controllo: ciò che noi postiamo non ci appartiene più! Può essere usato in mille modi possibili. L’altro aspetto riguarda la dimensione emotiva: noi siamo sempre molto scossi da queste vicende, ma la dimensione emotiva è effimera, svanisce subito. L’importante, quando accadono fatti drammatici come questi, è fare in modo che non siano inutili. E’ importante che suscitino una volontà di pensare a quello che sta succedendo e di affidarsi anche a chi può aiutarci a capire in che ambiente ci stiamo muovendo. Questo per evitare che gli stessi errori si ripetano di nuovo, con tante vittime innocenti.

D. – In questa triste storia possiamo dire che il fardello dell’ingiuria, anche il senso della vergogna di questa giovane, si sono alternati su Internet, sul mondo dei social fino a questo tragico epilogo. E’ stato, quindi, soprattutto il mondo virtuale a creare vittima e carnefici?

R. – Io credo che ci sia una dinamica che fatichiamo a riconoscere e che ci deve interrogare: la dinamica di una visione individualistica, radicale, piuttosto che relazionale del sé. In un individualismo radicale il sé cerca solo consensi, cerca di moltiplicare consensi perché questi restituiscano un’immagine potente di sé. E non importa come questi consensi siano ottenuti: l’ingiuria, la frase offensiva, il video violento che, però, può essere rilanciato più e più volte sono qualcosa che in questo sé quantificato contribuisce ad aumentare una percezione forte di sé, di questo sé che ha bisogno di erigersi sopra gli altri. Invece una concezione relazionale pone un limite a ciò che io posso fare per ottenere consenso, proprio in virtù del fatto che sono in relazione con altri. Se non decidiamo quale è l’opzione che sta alla base della nostra comunicazione nella vita faccia a faccia, quotidiana, ma anche nella vita in Rete, fatti come questi continueranno a ripetersi.

D. – In questo mondo dei social le “chiacchiere di paese” si trasferiscono dalla piazza alla Rete e gli effetti possono essere ancora più devastanti…

R. – Cadono ai confini fra i contesti e questo produce anche effetti grotteschi: abbiamo politici che parlano come se fossero al bar… E questo viene scambiato per autenticità, per libertà, per spontaneità e anche per affidabilità. Mentre non è che incompetenza: incapacità cioè di riconoscere che ci sono delle differenze. La consapevolezza di essere in relazione con altri ci fa distinguere la appropriatezza della nostra comunicazione nei diversi contesti e ci aiuta a non commettere errori tragici di questo tipo.

D. – Dal mondo dei social media emerge poi, sempre con maggiore forza, anche la dimensione teatrale e spesso purtroppo – come abbiamo visto – anche drammatica della vita delle persone…

R. – Sì. E’ come se noi, in un mondo in cui la performance del sé è in qualche modo un imperativo, fossimo sollecitati continuamente a recitare noi stessi: quindi il profilo è già una manifattura del nostro sé, che noi costruiamo più in relazione a ciò che pensiamo possa piacere ad altri che non in relazione a ciò che noi siamo o vorremmo diventare. Purtroppo la Rete sollecita una esteriorità, una estimità, una estroflessione e molto poco, invece, quel dialogo con se stessi. Un dialogo che aiuterebbe a stare nell’ambiente digitale in una maniera intanto meno pericolosa, più rispettosa e soprattutto più costruttiva.

D. – Serve, dunque, una educazione al web. Ogni passo in Rete – come nella vita reale – deve richiedere riflessione, prudenza…

R. – Sì, ma prima ancora serve una educazione alla relazione: se io sono abituato a pensare che esiste qualcun altro oltre me stesso, il mio comportamento avrà dei limiti. Il mio comportamento si porrà la questione del rispetto, la questione – appunto – della non violenza nei confronti dell’altro. Se io questa alterità non ce l’ho presente, posso anche tecnicamente essere avvertita di tutti i rischi, però il mio comportamento sarà comunque non rispettoso e violento.








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