2016-09-27 11:22:00

La comunità cattolica della Georgia attende il Papa con gioia


La Georgia attende il Papa e sarà la piccola comunità cattolica ad accoglierlo il prossimo 30 settembre. Si tratta di una minoranza, in un Paese prevalentemente ortodosso, ma completamente dedita alle opere di carità. Tra le prime congregazioni a giungere nel Paese alla fine del comunismo per dare impulso alla rinascita della vita ecclesiastica, sono stati i camilliani. C’era allora anche padre Nino Martini che - al microfono di Gabriella Ceraso - così ricorda quei tempi:

R. – Il Papa adesso troverà un Paese trasformato. Diciamo che quando siamo arrivati noi in Georgia, abbiamo parzialmente ricostituito in qualche modo la Chiesa cattolica dopo il comunismo, perché qui si parla del ’92. Ci avevano detto di non andare in Georgia in quel periodo perché c’era la guerra civile. Noi siamo andati a trovare Shevardnadze e la città era bombardata in buona parte; lungo le strade c’erano ancora i carri armati; c’erano state molte vittime. Lo stesso Shevardnadze era praticamente difeso a vista perché poteva essere oggetto di un attentato.

D. – Era un Paese in cui anche la mentalità era da sempre stata quella imposta dall’Unione Sovietica. In che modo avete condiviso la ripresa di una vita che fosse democratica?

R. – Noi abbiamo cominciato con il poliambulatorio, chiedendo allo Stato cosa fosse più urgente in quel momento. Perché in effetti, specialmente la sanità era ridotta ai minimi termini e la gente non aveva le cure. E davamo anche le medicine gratuitamente ai malati. Dopo, passato quel periodo, lo Stato si è in qualche modo organizzato. Noi stessi allora abbiamo fatto in modo che il poliambulatorio fosse affiancato da un’altra opera che costruimmo per i disabili e che sarà quella che visiterà il Papa in questi giorni. Quindi, abbiamo collaborato al cambiamento dello Stato dal punto di vista sanitario-sociale perché eravamo diventati un punto di riferimento per la periferia di Tbilisi e avevamo in cura circa 500 mila abitanti.

D. – Siete riusciti a "conquistarli"?

R. – Non ci è servito neanche molto, eh! Perché il loro carattere ospitale è magnifico. Loro si definiscono i “napoletani del Caucaso”!

D. – Com’è cambiata nel tempo la Georgia?

R. – Sono cambiate in un modo radicale sia la Georgia che l’Armenia. Lei pensi che l’amministrazione era tenuta ancora con i calcoli fatti con le palline, come usiamo negli asili con i bambini. E siamo arrivati ormai alla più grande modernizzazione in pochissimo tempo.

D. – Avete svolto anche un ruolo nella catechesi e nella formazione?

R. – Tutta ha camminato insieme: la parte spirituale, quella materiale, sanitaria e assistenziale. Possiamo dire veramente che la Chiesa cattolica, pur essendo una Chiesa di estrema minoranza, è diventata significativa da ogni punto di vista.

D. – Lei c’era in Georgia e anche in Azerbaigian quando ci fu San Giovanni Paolo II: che contributo ha dato quella presenza nel tempo, fino ad oggi?

R. – Ha dato un contributo soprattutto di apertura verso gli ortodossi, ed è venuta a portare una certa pace. C’è stato un riavvicinamento fondamentale, c’è un cammino più avviato; e quindi penso che il Papa, con questa sua visita, metterà ancora una pietra importante.

D. – A livello di scuole, fabbriche, punti di ritrovo, avete potuto fare qualcosa?

R. – Non abbiamo neppure cominciato, perché intanto il rischio grosso era che fossimo accusati di fare proselitismo. Abbiamo creato poi delle scuole e anche qualche asilo, ma questo nell’ambito delle nostre comunità.

D. – E ci sono stati frutti, risposte nel tempo che lei ha colto, anche da parte della popolazione?

R. – Certamente sì, perché le nostre comunità sono rinate: abbiamo avuto dei seminaristi, più di 20-25 sacerdoti locali e più di una trentina di suore.

D. – Quindi, secondo il suo punto di vista, quali sono le cose più importanti da capire per riuscire ad essere cattolico in un luogo di periferia, in un luogo dove si è in minoranza?

R. – Un po’ come dice il Papa oggi in continuazione: 'Sono i fatti che contano'. E attraverso questi fatti – chiaramente –  noi abbiamo fatto porre alla gente molti punti interrogativi, i quali quindi avevano come conclusione che tutto questo veniva fatto per uno spirito di servizio, per uno spirito cristiano. E in quanto tali siamo sempre stati rispettati: indirettamente noi facevamo un’opera pastorale enorme, perché era una continua testimonianza di vita. Il nostro compito è curare i malati e assistere i poveri: siamo – diciamo così – le retrovie forse oppure le avanguardie di questa nostra pastorale.

D. – Servirà ancora questo alla Georgia?

R. – Eccome! Servirà ancora per molti anni, soprattutto perché, al di là di quello che materialmente facciamo, dobbiamo diventare dei testimoni di come si assistono i malati e di come si vuole bene alla gente. È il “come” che conta, perché poi lo Stato si potrà anche organizzare, ma la testimonianza, il cuore, bisogna che lo portiamo noi.








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