2016-10-26 14:01:00

Anche il Gambia chiede di uscire dalla Corte Penale Internazionale


Dopo Sudafrica e Burundi, anche il Gambia ha annunciato l’intenzione di abbandonare la Corte Penale Internazionale. I sei procedimenti in corso alla corte dell’Aia, alla quale aderiscono 123 Paesi tra i quali mancano Stati Uniti, Russia e Cina, riguardano infatti solo Paesi africani e non le grandi potenze. Sulle ragioni di questa presunta discriminazione Michele Raviart ha intervistato Gian Paolo Calchi Novati, direttore del Dipartimento di studi politici dell’università di Pavia:

R. – L’oggetto principale della contestazione è che soltanto esponenti della politica o delle forze armate di vari Paesi africani siano stati incriminati, in alcuni casi condannati, dalla Corte stessa. Si dice, con una certa verosimiglianza, che nel mondo ci sono molti crimini che restano impuniti ma soltanto contro gli africani ci sarebbe questa specie di accanimento. Il discorso è un po’ a doppio taglio perché siccome l’Africa non commette, se commette, crimini contro extra-africani ma sostanzialmente si tratta di vicende interne, è vero che la Corte incrimina dirigenti africani ma in un certo senso protegge i cittadini africani. Nell’ultima volta in cui la questione fu discussa in sede Unione Africana i dirigenti negoziarono poi con la Corte una specie di compromesso. Il compromesso sarebbe consistito nel fatto che i dirigenti in carica non avrebbero dovuto essere sottoposti a giudizio prima della fine del mandato.

D. – Quali potrebbero essere le ragioni interne che hanno portato Gambia e Burundi a chiedere di uscire dalla Corte?

R.  – Da qualche mese il Gambia è un Paese che fornisce una forte percentuale di migranti che arrivano in Europa chiedendo asilo politico per l’inasprimento della politica di repressione del governo in chiave islamista, forse per distinguersi dal Senegal che qualche volta ha tentato vari opportunismi per integrare e condizionare, evidentemente, l’autonomia del Gambia. Può darsi che questo sia anche un modo per tenere un po’ le distanze da un’eventuale politica di repressione diretta che possa essere effettuata dal Senegal. Il motivo che mi induce a pensare la decisione del Burundi è che il presidente del Burundi ha tentato la strada del terzo mandato; in Burundi questo processo elettorale che è stato falsificato ha provocato moltissimi incidenti.

D. – Quanto pesa la defezione del Sudafrica per tutto il continente africano?

R. – Questa è una mossa che rischia anche di mettere un po’ tutta l’Africa, indirettamente se non proprio direttamente, in una posizione di contestazione. Proprio in Sudafrica, dove invece un po’ la memoria di Mandela, un po’ il ruolo di Desmond Tutu, i tanti premi Nobel che vanta il Sudafrica ci si aspetterebbe una maggiore collaborazione con gli organismi internazionali preposti a garantire l’ordine, la giustizia e la libertà. I Paesi africani sono una grossa fetta degli Stati che hanno aderito alla Corte Penale. Come sappiamo molte grandi potenze si sono premunite, magari prima, firmando ma non ratificando la Corte penale, per cui non possono essere incriminate a norma per lo statuto della Corte Penale. E questo è un ulteriore motivo di frustrazione da parte dei Paesi africani che si sentono praticamente figli di nessuno.

D. – Quale futuro si prospetta per il diritto internazionale qualora altri Paesi africani decidessero di uscire dalla Corte? Che futuro per il diritto internazionale se l’Africa abbandona una di queste organizzazioni?

R. – Questo sarebbe un grosso passo indietro. Potrebbe essere un fatto positivo se si prendesse atto che la giustizia è diversa dalla politica. Questa discriminazione continua a venire fuori in tanti contesti e questa frustrazione degli africani si diffonde. Ripeto, anche con questo limite, forse, se funzionasse un po’ meglio, la giustizia penale potrebbe garantire un po’ più di incolumità dei diritti degli africani. Però mi sembra di capire da tanti fatti che prevale l’altro aspetto: noi siamo umiliati come è stato nell’epoca del colonialismo, della tratta, della schiavitù, di una falsa indipendenza e così via.








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