2016-11-16 12:08:00

Il card. Montenegro: l'Europa è incapace di guardare al futuro


Si è concluso ieri il seminario “Per un’Europa no exit. Un’unione dei diritti, dell’accoglienza, dell’inclusione” organizzato da Caritas Italiana. Nella seconda giornata ci si è concentrati in modo particolare sul tema dei flussi migratori e dei rischi di politiche populiste, senza perdere però di vista quelle che sono le speranza per il Vecchio continente. Francesco Gnagni ne ha parlato con il cardinale e arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro:

R. -  A leggere fino ad oggi non è che si ritrova molta speranza perché l’Europa sta dimostrando tanto egoismo e tanta incapacità di affrontare i problemi, quei problemi grossi che stanno diventando un po’ il test, il termometro di una situazione. Per cui davanti a questa Europa che se vuol guardare al futuro deve essere capace di fare scelte coraggiose, ci ritroviamo un’Europa piccola, frantumata, spezzettata, incapace di guardare al futuro. Questa è la mia impressione. Non per fare la “Cassandra” della situazione, ma guardando e leggendo, uno non può non pensare questo. Una piccola esperienza: quando andai al Consiglio europeo a parlare col presidente e con alcuni deputati, venne fuori – e l’ho detto tante volte – che l’uomo non è al centro ma il centro è l’economia e la finanza. Ecco perché poi l’uomo non viene considerato e non viene trattato per quello che è.

D. – Nel recente e memorabile discorso proclamato al conferimento del premio Carlo Magno il Santo Padre ha parlato di un’Europa “stanca e invecchiata che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice”. Da dove ripartire secondo lei?

R.  – Un’Europa che si dà fiducia rilegga le pagine iniziali della sua storia, quando in qualche modo si voleva guardare al futuro, si voleva mettere insieme la ricchezza di quello che ognuno poteva mettere a disposizione degli altri per tentare un cammino nuovo. Chi l’ha fondata ci ha creduto però poi col passare del tempo è andato diluendo e anziché il bene comune e il bene di tutti hanno preso il sopravvento i beni locali, personali, e quindi è finito il futuro. C’è da augurarsi che un sussulto, una scossa faccia ritrovare tutti a guardare nella stessa direzione e non a guardarsi addosso.

D.  – C’è il rischio secondo lei che possano prevalere le paure e i populismi?

R. – Ma il rischio già è in corso, perché poi cavalcare la sindrome della paura, dei populismi, è molto più facile che proporre solidarietà. La paura ti permette di non progettare, ti permette di avere paura di chiunque ti avvicina e quindi l’altro è un ipotetico nemico. La solidarietà mentre ti fa guardare l’altro, costringe a guardare anche te perché tu possa dare il meglio all’altro e con l’altro fare la strada insieme.

D. – Quindi è possibile ripartire dalle piccole cose, dalle persone che si incontrano, insomma dal basso, è possibile?

R. – Questo sì perché la storia non ci chiama ad essere dei “Mastro Lindo” o dei “Superman”: la storia a ognuno di noi chiede quello che gli è possibile. Se guardo la storia di Lampedusa ripenso al thermos che le vecchiette mettevano vicino alle porte, alle coperte che venivano date: non hanno cambiato la storia del mondo ma hanno cambiato senz’altro la storia di qualche persona.

Abbiamo parlato della tematica del seminario anche con un altro partecipante, il responsabile dell’area immigrazione di Caritas italiana Oliviero Forti:

R. – Il tema è quello del futuro dell’Europa che, negli ultimi due, tre anni ha vissuto, e ancora oggi sta vivendo, momenti difficile perché, dopo le vicende che hanno interessato tutto il Vecchio continente con l’arrivo di oltre un milione di profughi, quelle che erano delle certezze si sono trasformate in tanti punti di domanda: qual è il ruolo dell’Europa rispetto a un fenomeno chiaramente inarrestabile o, quanto meno, un fenomeno con il quale dovremmo fare i conti nei prossimi decenni? Ad oggi, la risposta è stata timida, spesso confusa. Quindi per noi questa è l’occasione per capire quali sono le dinamiche e i meccanismi che stanno animando questa delicata fase della storia europea, un continente che sembra, per certi versi, affaticato da una serie di vicende, spesso di matrice squisitamente politica, che ne indeboliscono però fortemente l’identità.

D. - Quali sono secondo lei i maggiori ostacoli a questo percorso, a questo processo di integrazione di apertura?

R. - Sono quelli a cui stiamo assistendo: una forte ripresa dei nazionalismi nei vari Paesi europei. Tutti conoscono l’Ungheria, in particolare le prese dure di posizione del leader Orban, ma ci sono anche altri Paesi dell’Europa orientale, come la Repubblica Ceca, la Repubblica Slovacca, la Polonia, che mal digeriscono alcune scelte assunte a livello di Commissione europea e volte a redistribuire una responsabilità a tutti gli Stati membri rispetto alla redistribuzione dei rifugiati che stanno arrivando che, in qualche modo, danno la misura di quanto ci sia da fare soprattutto per sostenere una cultura inclusiva di chi ormai si dice abbastanza diffusamente che “fugge da guerre”. Ma anche chi non fugge da guerre, ma fugge da fame, da situazioni ambientali, sociali, disastrose crediamo abbia diritto ad una risposta. L’idea e l’illusione in una prima fase era quella di provare a formulare una risposta congiunta, condivisa tra i vari Paesi. Purtroppo questo non sta avvenendo, ognuno di muove in maniera scomposta secondo quelle che sono anche le proprie sensibilità e i propri interessi elettorali. Questo rischia di creare un vero disastro. Oggi forse l’Italia è uno dei Pochi Paesi che in maniera coerente sta dando vita d una iniziativa rivolta non solo al salvataggio di queste persone in mare ma anche di accoglienza nel territorio. Però è un Paese tra i tanti, quindi quello che noi auspichiamo è che possa essere replicato, emulato anche da altri Paesi, ma i margini sono sempre più stretti.

D. - Quali sono in particolare i primi punti su cui lavorare? Da dove partire?

R. - Credo che al cosa più importante sia un grosso lavoro sul piano culturale; far riacquistare alle persone agli europei quella fiducia che oggi manca e che sta determinando questi processi di polverizzazione dell’identità europea. Fatto questo, contestualmente dobbiamo, nell’emergenza spesso continua che viviamo, dare delle risposte immediate. Quindi i due processi devono camminare parallelamente, ma solo con il tempo capiremo se l’Europa sarà veramente matura per dare risposte coordinate e soprattutto che siano frutto di una volontà popolare che oggi purtroppo manca a più livelli.








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