2016-11-23 12:54:00

Myanmar: scontri al confine con Cina, profughi varcano frontiera


Sono migliaia i birmani in fuga verso la Cina a causa dei combattimenti tra ribelli ed esercito nel nord del Myanmar, dov’è in corso un’annosa battaglia separatista. In tremila, secondo Pechino, hanno attraversato il confine: sono ora ospitati in strutture d’accoglienza e, per le situazioni più gravi, in ospedale. Una decina al momento le vittime degli scontri tra i militari di Nayipidaw e i combattenti del Kia, il gruppo armato di etnia Kachin che opera nella zona frontaliera, al centro delle tensioni con il potere centrale perché ricca di risorse minerarie. Ce ne parla Romeo Orlandi, vice presidente dell’associazione Italia-Asean (realtà che riunisce i Paesi del sud est asiatico), intervistato da Giada Aquilino:

R. – Le etnie che compongono le popolazioni di quel Paese - e che costituiscono complessivamente più della metà degli abitanti - non sono state né ben integrate né pacificate e anche gli sforzi del nuovo governo birmano, il cui leader è Aung San Suu Kyi, si sono rivelate per il momento poco efficaci. Questa etnia cinese trova sponda nella ‘grande madre Cina’. Pechino per decenni è stato il grande alleato e protettore del Myanmar, ma contemporaneamente foraggiava i ribelli sia armati sia civili che compongono la parte del nord-est birmano, a confine con la provincia cinese dello Yunnan. Ricordo che si tratta di una zona molto ricca dove i traffici imperversano, si taglia il legname, i minerali passano senza tanti controlli: è una zona piuttosto porosa. In questa situazione, la Cina continua a giocare in maniera ambivalente: ha ottime relazioni con il Myanmar però sostiene questa etnia cinese che è contraria al governo birmano. Forse la cosa può essere letta pure come una presa di posizione o un avvertimento per l’apertura che il Myanmar sta facendo verso l’Occidente e che quindi potrebbe penalizzare in qualche maniera la Cina nello scacchiere sudorientale dell’Asia.

D. – Quindi queste violenze costituiscono una sfida per Aung San Suu Kyi e il suo governo, il primo esecutivo civile in Myanmar da decenni?

R. – Non c’è dubbio che costituiscano una sfida anche perché non sono le sole. Dall’altra parte del Paese, sul mare, c’è un’altra etnia, musulmana: si tratta dei Rohingya, che conducono una lotta di sopravvivenza che sfocia anche in vittime e in conflitti armati con il governo birmano. Esistono poi dei gruppi buddisti che sono stati criticati dalla stampa internazionale per posizioni islamofobe. Ora: Aung San Suu Kyi ha un compito estremamente difficile perché il governo militare aveva messo una specie di tappo a queste insurrezioni, reprimendole, non riconoscendole e non intavolando trattative, ma il problema è tutt’altro che risolto. Adesso che c’è il nuovo regime democratico in Myanmar, con a capo Aung San Suu Kyi: tutte queste contraddizioni emergono e anche la sua volontà di risolverle si scontra con l’oggettiva difficoltà della situazione. Bisogna anche dire, per completezza, che Aung San Suu Kyi è stata anche accusata – forse il termine “accusata” è esagerato – dai suoi stessi compagni di partito di essere eccessivamente dura nei confronti delle minoranze. E probabilmente lei non può che fare quello che fa, perché altrimenti la situazione potrebbe sfuggire di mano. Insomma, l’eredità del passato è molto difficile da gestire.

D. – Come leggere allora l’offensiva dell’esercito contro i gruppi musulmani di etnia Rohingya che nelle ultime settimane si è intensificata?

R. - Eliminare le frange più ostili al governo birmano e, dopo di questo, provare a intavolare una trattativa da posizione di forza. Normalizzare il Paese e poi cercare di integrare come non era stato mai fatto con le minoranze. Solo che ciò non è facile perché le tensioni si sono accumulate, i rancori non sono assolutamente sopiti. E in più bisogna anche dire che l’esercito birmano forse non brilla per capacità di intervento e questo ovviamente alimenta il risentimento.








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