2016-12-13 15:00:00

Idos: cresce numero e qualità delle imprese di immigrati


In Italia, a fine 2015, le persone non comunitarie rappresentavano la maggioranza dei lavoratori autonomi, esattamente il 69,9 per cento. Un sesto di essi aveva dei dipendenti. Sono alcuni dei dati contenuti nel Rapporto “Immigrazione e Imprenditoria 2016”, curato dal Centro Studi e Ricerche Idos, in collaborazione con MoneyGram e Cna, e presentato stamattina a Roma nella sede di Unioncamere. Qualche altra cifra: sempre a fine 2015, oltre 550 mila erano le aziende a guida immigrata registrate in Italia, il 9,1 per cento del totale, con la produzione del 6,7 per cento della ricchezza complessiva. Otto imprese su dieci si trovavano nel Centro Nord, quasi un terzo solo in Lombardia e nel Lazio. Significativo poi che tra il 2011 e il 2015 le aziende di immigrati siano aumentate di oltre il 21 per cento (+97mila), mentre nello stesso periodo il numero delle imprese registrate nel Paese ha fatto rilevare un calo complessivo dello 0,9%. Sul Rapporto, Adriana Masotti ha intervistato la curatrice, Maria Paola Nanni dell’Idos:

R. – Sicuramente l’elemento che più caratterizza l’imprenditoria immigrata in Italia è una presenza nel mondo imprenditoriale che cresce, a ritmi anche sostenuti, rilevanti, nonostante la crisi economica. E soprattutto è una crescita che è in controtendenza rispetto a quello che invece si osserva tra le imprese guidate dai cittadini, i lavoratori nati in Italia. E questo quindi porta le imprese immigrate ad avere un ruolo sempre più importante, determinante soprattutto per quei settori caratterizzati da forti difficoltà di ricambio generazionale, perché magari poco appetibili per i giovani italiani che pure continuano ad essere segnati da una forte disoccupazione.

D. – E chi sono i gruppi di immigrati più presenti e attivi in Italia?

R. – Sul piano imprenditoriale sicuramente spicca il ruolo dei marocchini, dei cinesi, dei rumeni, dei bangladesi, come pure dei senegalesi e degli egiziani. Sono tutti gruppi che si sono evidenziati fin dall’inizio della loro presenza in Italia per una forte vocazione al lavoro autonomo, all’avvio di una vera e propria impresa e, tra l’altro, anche per specifiche tendenze alla concentrazione in determinati settori. I marocchini - è noto - sono dediti soprattutto al commercio, così come i senegalesi e i bangladesi, che pure però sono molto attivi anche nei servizi alle imprese nell’ambito ristorativo-alberghiero. I cinesi poi sono molto attivi nella manifattura, e quindi nella lavorazione di capi d’abbigliamento, ma sono molto attivi anche nel commercio, così come nel settore della ristorazione. Rumeni e albanesi invece da sempre si caratterizzano soprattutto per una forte competenza nel comparto edile.

D. – Quando si percorrono nelle nostre città, vie dove un tempo c’erano aziende, negozi, vetrine italiane, e adesso si vedono tutti nomi diversi, quale dovrebbe essere la reazione giusta da parte dei residenti autoctoni? Questo cambiamento è da vedere come una ricchezza o no?

R. – Questo evidentemente dipende anche molto dalla sensibilità personale. In termini statistici, guardando il tutto da una prospettiva più ampia, è evidente che si tratta di attività che di fatto hanno preso il posto di altre attività magari prima gestite da imprenditori italiani, perché si tratta di attività con bassi margini di guadagno e di crescita. Sono settori soprattutto legati ad un alto carico di lavoro per chi decide di investirci, di lavorarci. In questo i migranti possono far leva su quello che è definito il “capitale fiduciario” delle reti comunitarie: ovvero possono far poggiare la propria forza sull’aiuto di parenti e amici; e questo può essere un punto di forza che permette ai migranti di sostenere questo tipo di attività.

D. – L’alternativa sarebbe una serie di chiusure di esercizi ecc…

R. – Esatto, sarebbe la chiusura! In questo senso i migranti rivitalizzano anche il tessuto urbano commerciale dei piccoli centri e anche delle grandi città. È sicuramente un’opera di vivacizzazione, di dinamismo, che altrimenti scomparirebbe. Di fatto soffrono entrambi, anche gli stranieri, delle stesse problematiche, come un’eccessiva pressione fiscale o la difficoltà di accesso al credito. E i migranti in certi casi riescono a sostenere il carico perché legati a un forte spirito di sacrificio e perché hanno alle loro spalle un forte bisogno e l’urgenza di guadagnare: non possono permettersi lunghi periodi di disoccupazione. Per cui magari l’avvio di una piccola attività è funzionale a produrre un reddito, magari basso ma comunque un reddito.

D. – Il sottosegretario Luigi Bobba ha commentato il Rapporto dicendo che siamo passati ad una imprenditorialità immigrata matura, con grande beneficio per il sistema Italia…

R. – Sì, quello che si intende dire è che alla crescita quantitativa si comincia ad accompagnare anche una crescita qualitativa: è questa che va sostenuta. Quello che è importante in questi casi è non cadere in un’ottica oppositiva, competitiva, che rischia di indurre una competizione al ribasso. Quello che si vuole invece è una crescita qualitativa generale del Sistema Italia, inclusa la componente immigrata.








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