2016-12-25 12:10:00

Natale in Terra Santa: Pizzaballa, apriamo porte e troviamoci fratelli


Proseguono le celebrazioni del Natale in Terra Santa, dopo l’avvio nella giornata di ieri. Nella Basilica della Natività a Betlemme, stamani Santa Messa presieduta dall’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa. Il servizio di Sara Fornari:

Mille e trecento i biglietti della Messa di ieri nella Basilica della Natività, cui hanno partecipato rappresentanze diplomatiche e autorità politiche e dove ha portato il suo saluto il presidente palestinese Mahmoud Abbas. La celebrazione è stata presieduta da mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato di Gerusalemme dei latini.

La Basilica nella sua luce calda e accogliente, i canti lieti che si sono alzati al cielo, i fedeli da tutte le nazioni che hanno riempito la Basilica: Messa celebrata accanto alla Grotta della nascita dove alla fine del pontificale di mezzanotte è stato portato in processione il bambinello. È il Natale a Betlemme dove, certo, è più facile aver presente l’evento che parla a ogni uomo, “l'annuncio di una salvezza che attende di essere accolta per realizzarsi”: Mons. Pizzaballa lo ha sottolineato nella sua omelia. “All’indomani del Giubileo della Misericordia, possiamo leggere il Natale come la porta che Dio mantiene aperta per uscire verso l’uomo e invitarlo ad entrare nella comunione con lui”.

Alla porta aperta di Dio, ha spiegato l'amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei latini, corrispondono le porte degli uomini disponibili a farlo entrare o quelle che si chiudono, come “il cuore di Erode, le case di chi non ha posto per Lui, chi ha i suoi beni da difendere, le sue idee da imporre”.

La porta aperta è un invito alla nostra libertà ad aprire le porte a Cristo per rendere “possibile o impossibile la pace che attendiamo, l'incontro che salva”. L’arcivescovo ricorda come “speranze di pace troppo spesso deluse, violenze e attentati ricorrenti” ci spingono “a trincerarci, a blindare le porte, a fuggire lontano piuttosto che restare, resistendo nella fiducia e nella speranza”. 

Ma le porte chiuse, i confini difesi, ha notato il pastore alla guida del Patriarcato latino, “sono una metafora della paura che genera le dinamiche violente del momento presente”. “Le nostre speranze, qui come in troppi Paesi del mondo, naufragano in mezzo alla corruzione, all'impero del denaro, alla violenza settaria in Siria, Iraq, Egitto, Giordania. Ma anche nella nostra Terra Santa continua a salire la sete di giustizia e dignità, di verità e amore vero. Continuiamo, infatti, a rifiutarci e a negarci vicendevolmente”, dice poi mons. Pizzaballa, descrivendo una “psicologia del nemico” che si trasforma in ideologia, genera uno stile di vita aggressivo, un modo conflittuale di porsi di fronte agli altri, senza speranza per il futuro. “Dalle porte di casa fino ai confini degli Stati, è tutto un chiudersi nella paura e nella diffidenza, nell’esclusione e nella guerra. Ci sentiamo tutti esclusi, bloccati, separati”.

Il Natale, invece, racconta di una gioia e di una pace che giungono se apriremo le porte; se condivideremo la buona volontà di Dio che apre anziché chiudere, dona anziché prendere, perdona anziché vendicarsi. In questo modo, “possiamo passare dalla ideologia del nemico alla logica della fraternità, mossi da un Dio che ha avuto fiducia nell’uomo prima ancora che noi avessimo fiducia in Lui”. “Usciremo dalle nostre chiusure, andremo incontro a Colui che ci chiama?”, prosegue mons. Pizzaballa. O resteremo chiusi per “conservare il nostro potere, difendere i nostri interessi, pronti anche a escludere l’altro? Ci affideremo ancora alle nostre strategie politiche o militari dal corto respiro”?

La risposta è nelle nostre scelte libere e responsabili, ha ammonito il pastore, esortando: “Mentre guardiamo a Cristo bambino, Porta aperta del Padre che nessun rifiuto può chiudere, si riaccende la fiducia e si rianima la speranza e ancora cantiamo: Tu sei la nostra speranza: non saremo delusi”!

Su questo Natale a Betlemme, Giada Aquilino ha intervistato proprio mons. Pierbattista Pizzaballa, che quest’anno ha presieduto le celebrazioni per la prima volta da amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme:

R. - Innanzitutto, è un Natale pieno di gente, di tanti pellegrini da tutto il mondo e questo ci fa molto piacere. Soltanto nel Campo dei pastori, nella notte, ci sono stati oltre 80 gruppi, 80 Messe cattoliche, più altrettante protestanti nei diversi altari, nelle diverse cappelle: è il segno che sono tornati i pellegrini e di questo siamo contenti. Vogliamo per un po’ mettere da parte i problemi, diventare come i bambini e gioire insieme a loro.

D. - La situazione dei cristiani qual è in Terra Santa, ma anche in Paesi quali la Siria, l’Iraq, l’Egitto?

R. – Se confrontiamo i cristiani d’Israele e di Palestina con quelli di Siria, Egitto e Iraq non abbiamo il diritto di lamentarci, perché le tragedie che stanno vivendo quei Paesi sono molto lontane dal nostro contesto. Naturalmente, anche qui ci sono problemi, come quello del rifiuto di parlarsi tra israeliani e palestinesi o del muro che divide molte famiglie. Insomma, situazioni sociali purtroppo note e che non trovano soluzione né prospettiva.

D. - A Betlemme l’entrata solenne, per la prima volta, da amministratore apostolico del Partiarcato latino di Gerusalemme, poi la Santa Messa di Natale. Che messaggio vuole trasmettere?

R. - Natale dev’essere cercato. L’Angelo dice ai pastori: “Andate, vi annuncio una grande gioia: è nato il Salvatore”. Ma non finisce tutto lì: bisogna andare a cercarlo il Salvatore e non dobbiamo attendere che la salvezza venga dall’alto, stando seduti in casa nostra, bisogna uscire dalle nostre certezze, dai nostri confini, dal nostro mondo per incontrare l’altro e lì trovare la salvezza, il Salvatore.

D. - Qualche giorno fa lei ha esortato a rinnovare la nostra fede in Dio dal volto “apparentemente debole”, appunto quello del Bambino Gesù. Quali sono le sue speranze?

R. - Le mie speranze sono che guardando quel Bambino e guardando la sua fragilità, dove tutti ci ritroviamo, possiamo ritrovarci fratelli anche qui, in Terra Santa, e smettere di negarci l’un l’altro.








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