2016-12-29 12:36:00

Rapporti Usa con Russia e Israele: Obama attento a eredità politica


Potrebbe essere annunciato a breve il pacchetto di misure restrittive e sanzioni pensato dall'amministrazione Obama per l'interferenza, nelle presidenziali statunitensi del novembre scorso, degli hacker russi. Il Cremlino ha comunque smentito di aver ordinato gli attacchi informatici che, secondo le agenzie di intelligence Usa e la Casa Bianca, avrebbero favorito l’elezione di Donald Trump. In questo clima, il segretario di Stato John Kerry ha risposto a Israele, dopo le critiche del governo di Benyamin Netanyahu riguardo all’astensione americana all’Onu sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Washington non ha abbandonato Israele, ha detto il capo della diplomazia di Obama, ma se gli insediamenti non sono il maggiore ostacolo - ha sottolineato - è vero che “più ce ne sono più la pace è difficile”. Perché ora questa presa di posizione dall'amministrazione Obama, a pochi giorni dall’insediamento di Trump? Giada Aquilino lo ha chiesto a Dario Fabbri, coordinatore per l’America della testata di geopolitica ‘Limes’:

R. – Perché in questa fase Obama è molto attento, come capita a tutti i presidenti che sono al termine del loro secondo mandato, alla cosiddetta “eredità politica” che lascia alle spalle. Quindi, l’astensione degli Stati Uniti in seno al Consiglio di Sicurezza, in merito alla risoluzione contro gli insediamenti ebraici, non ha alcun valore reale, ma soltanto simbolico. E questa era l’intenzione di Obama, nel caso specifico, e della sua amministrazione, in senso allargato.

D. – Si possono leggere come una raffica di azioni intraprese da Obama per mettere dei paletti alla futura presidenza Trump?

R. – C’è anche questo, ma sarebbe comunque uno sforzo velleitario. Un presidente, specialmente negli Stati Uniti, è uno degli ingranaggi dell’esecutivo americano; e quindi non sarebbe in grado, neanche volendo, di mettere paletti, se non avesse dalla sua - ed è questo il caso relativo soprattutto alla Russia - il sostegno del Congresso e soprattutto degli apparati federali: quindi delle varie agenzie, dal Pentagono al Dipartimento di Stato, che ne condividono l’afflato anti-russo. Se l’intenzione di Obama è quella di mettere paletti sulla Russia può riuscirci, ma non perché abbia una potenza personale, ma perché aderisce in questo senso al sentire del Congresso e degli apparati.

D. – Sulla Russia sono state pensate sanzioni di tipo economico, censure di carattere diplomatico e censure anche a cyber-operazioni. Potranno durare dopo l’insediamento di Trump?

R. – È tutto da vedere. Se saranno, come dovrebbero essere, sanzioni soltanto presidenziali - e quindi ordini esecutivi della Casa Bianca - allora potrebbero non durare, per il semplice motivo che con un colpo di penna Trump potrebbe annullarle. Se invece fosse il Congresso – cioè il Parlamento americano – ad approvare nuove sanzioni contro la Russia, non dipenderebbero dal presidente. Il Congresso, indipendentemente dai partiti, in maniera del tutto trasversale, persegue un’agenda propria anche in politica estera, che appunto è scollegata, slegata da quella del presidente. Quindi, se queste sanzioni saranno un’iniziativa soltanto presidenziale, Trump le potrebbe sospendere se non addirittura annullare, consapevole però che gli apparati, in particolare la Cia, ma anche il Dipartimento di Stato e il Pentagono, condividono l’atteggiamento fortemente anti-russo di Obama e non quello di apertura nei confronti della Russia che sarebbe, almeno stando alla sue dichiarazioni, proprio di Trump.

D. – Trump, per il disgelo dei rapporti con Putin, sarebbe pronto a sacrificare le azioni anti-hacker?

R. – Non credo che considererebbe un sacrificio non curarsi dei consigli della Cia al riguardo. Sappiamo che la Cia è uscita allo scoperto accusando direttamente gli hacker russi di aver interferito nelle elezioni presidenziali. Quindi, sull’altare del disgelo che vorrebbe realizzare Trump con Putin, credo che sacrificherebbe quanto accaduto.

D. – Tornando al Medio Oriente, Kerry ha detto che gli Stati Uniti non hanno abbandonato Israele. Però, anche se gli insediamenti non sono il maggiore ostacolo, è vero che “più ce ne sono e più la pace è difficile”: è così?

R. – Gli insediamenti ebraici nei cosiddetti Territori occupati, in Cisgiordania ma anche intorno a Gerusalemme Est, rappresentano un’ulteriore espansione dello Stato ebraico e quindi un’ulteriore sottrazione di territorio ad un futuro immaginato Stato palestinese. Dobbiamo calcolare che, indipendentemente dall’amministrazione Obama, Israele in questa fase non ha alcuna necessità di trattare una soluzione - quella relativa ai due Stati con i palestinesi - perché Israele si muove in una posizione di straordinaria forza al momento: non ha alcuna minaccia reale alla propria sopravvivenza di tipo esterno, come capitava qualche decennio fa. E dobbiamo anche ricordare che questi insediamenti hanno un duplice valore per Israele: da una parte “allargarsi”, cioè estendere il proprio controllo territoriale serve, come capita a tutti gli Stati, ad allontanare la prima linea di difesa dal territorio nazionale, quindi in Cisgiordania, controllando la Striscia di Gaza, le alture del Golan e così via. Dall’altra parte, proprio questi insediamenti saranno parte di un negoziato futuro: quando Israele sarà costretto a trattare con i palestinesi, potrà mettere sul tavolo la proposta di rinunciarvi.








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