2017-01-14 19:07:00

Libia, naufragio a 30 miglia da costa; nel Paese caos politico


Resta sempre più caotica la situazione politica in Libia, un Paese spaccato in due tra Tripoli e Tobruk. Intanto oggi un barcone di migranti è naufragato a 30 miglia a nord dalle costa. Solo quattro le persone fino ad ora salvate, si teme un disastro.Il servizio di Elvira Ragosta:

Otto i cadaveri recuperati nelle operazioni di soccorso coordinate dalla Guardia Costiera, con l’ausilio di mezzi del dispositivo Frontex e alcuni mercantili, ma la ricerca è resa difficile dalle averse condizioni meteo. A far temere che i morti siano molti di più le testimonianze dei quattro migranti portati in salvo, secondo cui sul barcone naufragato c’erano oltre 100 persone. Erano partiti dalla Libia, dove la situazione politica è sempre più complicata .

Il Paese è diviso tra il governo di Tripoli internazionalmente riconosciuto e presieduto da al Serraj e quello Tobruk, presieduto  al Thani e sostenuto dal generale Haftar. Oggi a Tripoli, il vice premier Maitig, ha incontrato i responsabili della sicurezza, dopo che, giovedì scorso, milizie riconducibili all’ex premier del governo islamista tripolitano Ghwell avevano tentato un assalto a tre ministeri. Secondo una fonte qualificata, citata dal quotidiano panarabo Asharq Al- Awsat, Ghwell starebbe valutando un alleanza con l’esecutivo di Tobruk , con l’obiettivo di conquistare Tripoli e formare un nuovo governo. Intanto, da Tobruk, il generale Khalifa Haftar starebbe avanzando verso Est con il suo esercito, puntando su Tripoli e Misurata.

Il rischio di una guerra civile e un aumento dei flussi di rifugiati dalla Libia è l’allarme lanciato dal ministero degli Esteri di Malta, George Vella, presidente di turno dell’Unione Europea, preoccupato anche dei contatti di Haftar con la Russia, che potrebbe installare proprie basi nelle aree sotto il controllo del generale.

 

La Libia rimane un Paese in profonda crisi. Forti le frizioni dopo l'annuncio della recente riapertura dell’ambasciata italiana. Sulla situazione libica, Giancarlo La Vella ha intervistato Marco Di Liddo, analista del Cesi, Centro Studi Internazionali:

   

R. – Finché la comunità internazionale non riesce ad adottare una linea strategica univoca, le possibilità e i tentativi di pacificazione vengono affidate soprattutto all’azione dei singoli attori. In questo l’Italia prova a fare il suo ruolo dal 2011 attraverso accordi con il governo di al Sarraj, l'esecutivo internazionalmente riconosciuto; accordi che mirano non soltanto a cercare di trovare una quadratura del cerchio in Libia, ma anche a diminuire quelle criticità di sicurezza, che possono poi colpire il territorio italiano, in primis la questione dei traffici degli esseri umani e dell’immigrazione clandestina.

D. - Dove sono falliti i tentativi che hanno cercato di ricomporre questa divisone tra il governo riconosciuto internazionalmente e quello di Tripoli?

R. - Innanzitutto, se proprio si vuole cercare una responsabilità delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, è quella di aver cercato di investire su personalità che hanno un controllo limitato del territorio libico e che, soprattutto per esercitare la propria azione politica, devono appoggiarsi necessariamente alle milizie locali che le tengono sotto una sorta di ricatto politico. Dall’altra parte le difficoltà di comunicazione e di dialogo tra Tripoli e Tobruk affondano le loro radici nella competizione secolare che c’è tra la Tripolitania e la Cirenaica e la volontà di quest’ultima di veder garantiti i propri diritti di autonomia e soprattutto di controllo delle risorse petrolifere che sono nel proprio territorio. Quindi l’accordo non va avanti, perché sostanzialmente i rappresentati di Tobruk non si sentono abbastanza tutelati e temono di ritornare in una situazione simile a quella dell’epoca di Gheddafi, in cui il centro aveva il pieno controllo di tutte le periferie. Questo scenario è osteggiato nella maniera più totale.

D. - Un Paese instabile, come la Libia oggi, rischia ancora di finire nelle mani del fondamentalismo?

R. - Per quanto Sirte sia stata riconquistata e il grosso delle forze del cosiddetto Stato Islamico siano state cacciate, lo spettro di forme jihadiste di mobilitazione politica non è stato del tutto esorcizzato, anche perché quella libica è una società molto fluida in cui gli accordi si basano soprattutto sui compromessi tra le milizie e tra le mille anime politiche del Paese. Lo Stato Islamico in Libia era sorto grazie ad un’alleanza molto pragmatica tra una parte degli ex gheddafiani di Sirte e alcuni nuclei di combattenti stranieri, che erano arrivati prima a Derna e poi si erano installati nella città di origine di Gheddafi. Questo elemento ci deve far riflettere. Siccome persistono ancora gravi fratture sociali e politiche all’interno del Paese, esiste la possibilità che una forma di jihadismo, di organizzazione parastatale che si ispiri ai precetti del jihadismo, dell’interpretazione più oscurantista dell’Islam, possa riformarsi in altre parti del Paese. Non dobbiamo poi mai dimenticare che spesso, quando si parla della guerra libica, noi consideriamo dinamiche che avvengono sulla costa, ma il vero ventre molle del Paese, totalmente fuori controllo, invece è l’entroterra, il Sud, il Fezzan, dove le realtà jihadiste hanno piantato la propria bandiera da anni e in maniera ben più stabile e proficua che nei pochi mesi di Sirte. Quindi l’attenzione deve rimanere ancora molto alta.








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