2017-01-20 10:42:00

Rapaccini: bisogna puntare sul modello dell’economia sociale


L’amministrazione del “Bene comune” non può chiudersi nel dualismo pubblico-privato. Ne è convinto Andrea Rapaccini, presidente dell’Associazione Make a Change per il business sociale. Per Rapaccini - che domani interverrà all'incontro: “Diamo credito alle famiglie. Insieme per far crescere il Paese” -  bisogna puntare sul modello dell’economia sociale. Massimiliano Menichetti lo ha intervistato:

R. – Per nozione di “Bene comune” si intendono quei beni e quei servizi che hanno a che fare con i diritti fondamentali dell’uomo, delle persone: quindi l’acqua, la salute, il territorio, la cultura... Sono beni a cui dovrebbero avere accesso tutti. Che cosa è successo attraverso soprattutto una forma di capitalismo finanziario negli ultimi anni? Di fatto questi beni sono stati messi a disposizione (per la gestione n.d.r.) di privati. Perché è successo questo? Perché viviamo in una forma dicotomica: se non è pubblico, è privato. La realtà, poi, è che il pubblico rischia di non gestire, di non massimizzare il valore di un bene comune nell’interesse della loro attività, perché magari non ha capacità progettuali, non ha capacità manageriali o non ha banalmente denaro per manutenere un bene o farlo sviluppare; il privato ha denaro, ha capitali, ma li mette a disposizione per un interesse, appunto, privato, per un interesse economico. Esiste però un’altra forma di economia, che è un po’ l’economia civile, l’economia sociale, dove la collettività si fa carico della gestione di un bene comune. Centrale il ruolo delle famiglie che possono organizzarsi sotto forme non speculative, di imprese sociali. Di modelli ce ne sono tanti, sia in Italia sia all’estero: in Italia si sono sviluppati sotto forma di cooperative sociali; all’estero si sono sviluppati invece con forme anche più capitalistiche. A prescindere dalla forma giuridica, il concetto di impresa sociale è il concetto in cui si gestisce un interesse comune in maniera economicamente sostenibile.

D. – Perché le famiglie e non i singoli che magari si organizzano in maniera virtuosa e vogliono contribuire a questo?

R. – Perché c’è un sistema di controllo sociale maggiore nelle famiglie. Ci sono esempi anche illuminanti lontano dal nostro Paese. La grande rivoluzione del micro-credito di Yunus in Bangladesh e nella lontana India, che adesso è diventato un sistema trasversale rispetto anche ai Paesi occidentali, non punta sul singolo, punta sul nucleo familiare. Il controllo sociale rispetto alla qualità di un servizio e alla correttezza con cui un servizio è erogato, è molto più alto se viene coinvolto il nucleo familiare rispetto al singolo. Perché si è parte di una comunità e la famiglia è parte di una comunità.

D. – Quanto riesce a far presa questo nuovo modello? Quanto è difficile farlo passare?

R. – E’ difficile perché siamo abituati a ragionare in termini dicotomici. Quindi è un fatto soprattutto culturale. Però bisogna far vedere che c’è questa strada e che non è una utopia. E poi parliamoci chiaro è una strada che c’è sempre stata ed è la strada del mettere insieme l’interesse sociale con l’interesse economico. I nostri imprenditori profit, che sono più o meno nati tutti negli anni Quaranta e Cinquanta e cioè nel dopoguerra - parlo di Olivetti, parlo di Barilla, parlo di Ferrero … - in realtà quando iniziavano una attività economica, la iniziavano anzitutto con la famiglia, poi le famiglie dei collaboratori e le famiglie delle comunità in cui vivevano: ognuno di queste ha contributo ad uno sviluppo economico soprattutto del territorio, prima ancora dell’imprenditore. Questo è quello che noi dobbiamo riprendere. Ripeto: dobbiamo dimenticarci il denaro per il denaro e la funzionalità di questi ultimi anni, riprendere questi aspetti e rigiocare, in maniera da protagonista a livello internazionale, un modello nuovo di economia e di integrazione con l’interesse sociale. Questo è il vero spazio di innovazione, secondo me, nei prossimi 20 anni. 








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