2017-01-24 14:36:00

Viganò: Papa non invita a ingenuità ma ad aprire spiragli di speranza


Centrale è lo sguardo di chi racconta, perché la realtà non ha un significato univoco. Così mons. Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione, che stamani ha presentato in Sala Stampa vaticana il Messaggio del Papa per la 51.ma Giornata delle Comunicazioni Sociali, assieme a Paloma Garcia Ovejero, vice direttore della stessa Sala Stampa, e a Delia Gallagher, vaticanista della Cnn. Francesco chiede sostanzialmente una comunicazione costruttiva, la logica della buona notizia, che non significa raccontare il mondo di Heidi, spiega mons. Viganò, ma aprire spiragli di speranza. Sentiamo lo stesso mons. Viganò nell’intervista di Debora Donnini:

R. – Spezzare la spirale di una comunicazione negativa, che porta anche alla anestetizzazione della coscienza, significa che certo la storia è fatta di grigio, di nero a volte, ma che trattiene sempre degli spiragli che aprono su un orizzonte di speranza, di vicinanza, di prossimità. Questo è quello che siamo chiamati a fare: far sì che non ci sia mai il male come protagonista vincente.

D. – Anche tragedie come il terremoto, le valanghe, le catastrofi naturali possono essere, in qualche modo, scenario di alcune buone notizie?

R. – Questo non significa cedere all’ingenuità irenica di un racconto inesistente della realtà. Ma, ad esempio, raccontare il mondo di bene che fa fiorire una situazione così tragica: penso al fatto che uomini e donne concretamente e personalmente si mostrino vicini a questa situazione. E’ come dire: “Guarda la situazione è difficile, però con te faccio qualche tratto di strada insieme”.

D. – Conosciamo tutti la viralità delle cattive notizie, specialmente sui Social Media e anche la difficoltà di fare debunking, cioè smentire quando sono false. Francesco chiede ai comunicatori di essere canali viventi della Buona Notizia. I media vaticani come possono realizzare questo?

R. – I media vaticani possono aiutare i media internazionali soprattutto mostrando i processi e i contesti entro i quali si situano e si collocano gli annunci e i messaggi del Santo Padre, perché molto spesso vengono decontestualizzati e quindi perdono anche quella forza propria, quella pertinenza propria che invece hanno.

D. – Come si può fare questo? Offrendo anche uno sguardo sulla storia, che aiuti a capire la realtà odierna?

R. – Assolutamente sì, perché ogni intervento di un Pontefice non è mai un ripartire da zero, ma è un inserirsi in una successione apostolica che – non dimentichiamo – è sempre una storia dello Spirito Santo: quando prima Benedetto e oggi Papa Francesco richiamano ad un criterio per leggere la vicenda della Chiesa, è il criterio di una ermeneutica spirituale.

D. – Nel Messaggio si sottolinea che immagini e metafore, più che concetti, sono la via privilegiata per comunicare “la vita nuova” in Cristo. Questo risponde proprio allo stile stesso di Papa Francesco: la sua comunicazione è spirituale e non sociologica. Questo perché un linguaggio che comunica con i gesti è più inclusivo?

R. – Ciò che è spirituale non è inconsistente. Lo spirituale ha a che fare con la storia, con la densità del fango di cui è intrisa la vicenda dell’uomo e l’uomo è fatto di una comunicazione che sa usare molto bene non solamente l’aspetto logico argomentativo-concettuale, ma anche i gesti e la prossimità. E i gesti e la prossimità dicono il calore, l’inclusività. Quindi credo che Papa Francesco in questo sia un grande maestro, probabilmente per tradizione culturale, per formazione propria. Ma credo, appunto, che l’idea di una comunicazione così metaforica - che è appunto parabola, racconto – dice anche come sia possibile avere delle comunicazioni che siano delle relazioni, relazioni anche di prossimità.

Nel giorno in cui la Chiesa ricorda San Francesco di Sales, Patrono dei giornalisti, mons. Dario Edoardo Viganò, ha presieduto la Messa nella cappella di Palazzo Pio. “Chiediamo che il nostro lavoro sia sempre uno strumento di costruzione”, ha detto, “che sappia respingere la tentazione di fomentare lo scontro”, ma favorisca “la cultura dell’incontro”.








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