2017-02-12 08:30:00

Ciad, allarme epatite "E". Don Carraro: difficile fare prevenzione


In Ciad è scoppiata un’epidemia di Epatite "E", ma la risposta è del tutto inadeguata. E’ l’allarme lanciato dall’organizzazione Medici Senza Frontiere e che riguarda però anche altri Paesi dell’area. Ce ne parla Francesca Sabatinelli:

Da settembre ad oggi sono stati circa 70 i casi di epatite "E" individuati nella città di Am Timan, capitale della regione del Salamat, nel Ciad orientale. Undici le persone morte, tra loro quattro donne in gravidanza. La situazione nel Paese subsahariano è destinata a peggiorare e le organizzazioni che vi lavorano, come Medici Senza Frontiere che ha lanciato l’allarme, chiedono alle autorità sanitarie di dichiarare ufficialmente l’epidemia per poter poi adottare interventi su ampia scala. La grave carenza di acqua potabile – documenta l’organizzazione di soccorso medico – costringe la popolazione a prelevare l’acqua da fonti contaminate da batteri, escrementi, insetti e scarafaggi. Si cerca di operare su più fronti per contenere l’epidemia, compresa la sensibilizzazione delle persone circa le basilari norme di igiene, che possano limitare il contagio. Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa-Cuamm:

R. – E’ una patologia ricorrente nei Paesi dell’Africa subsahariana, perché queste patologie sono frutto di un sistema complessivo che è fragile. E’ una patologia, questa, che si trasmette, in termine tecnico si dice ‘orofecale’, cioè dalle feci che non vengono gestite in maniera adeguata, che quindi si disperdono sia sul terreno sia nell’acqua, acqua che poi si beve, con la quale si pulisce la verdura o la frutta. Quindi si passa dalle feci all’acqua, dall’acqua agli alimenti che si assumono e con l’alimento, che è stato ‘lavato’ o comunque trattato con quest’acqua contaminata, si ingeriscono anche i virus dell’epatite "E". E’ una malattia molto frequente, che si incontra e che si vede parecchio, e dipende, purtroppo, da elementi basilari di non funzionamento, di fragilità dei vari Paesi come, appunto, nella gestione dell’acqua e delle fonti di inquinamento come le feci. Nelle città ci sono tali concentrazioni di persone per cui questi meccanismi sono certamente più frequenti, perché non c’è un sistema di smaltimento di acqua, di feci, di urina.

D. – Per fermare la diffusione di questa epatite "E", quindi, la cosa essenziale è non solo potabilizzare l’acqua?

R. – Sì, non solo, dipende anche dallo smaltimento delle feci e delle urine, sia umane sia animali, in modo che questi escrementi vengano canalizzati, messi nei pozzi. C’è proprio un sistema complessivo di trattamento sia dei liquami sia poi di come viene fornita l’acqua. Quindi, la cosa migliore sarebbe quella di avere pozzi che diano acqua pulita alla gente. Quindi serve anche potabilizzare, ma quello della prevenzione è un concetto più ampio. Il tema è l’acqua, sia come viene eliminata dal corpo umano, sia come viene ingerita dalle sorgenti, che devono essere sorgenti di acqua pulita o comunque potabilizzata.

D. – Quanto è difficile fare prevenzione in quei Paesi?

R. – Molto. Ed è per questo che, ad esempio, anche le Nazioni Unite, nell’Africa subsahariana, hanno identificato alcuni Paesi, il Ciad è uno di questi, ma poi il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, come Paesi fragili, dove il concetto di fragilità è un concetto ampio che riguarda il tema dell’acqua, ma riguarda anche il tema scolastico-formativo, che ti consente di capire che le malattie si trasmettono in quel modo e che riguarda, ovviamente, il sistema sanitario.








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