2017-04-14 14:53:00

Viganò: Venerdì Santo, condividiamo il dolore dei martiri cristiani


“Per trovare i martiri non è necessario andare alle catacombe o al Colosseo: i martiri sono vivi adesso in tanti Paesi. I cristiani sono perseguitati per la fede”. Così, mons. Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, con un passo di un’omelia del Papa a Casa Santa Marta, inizia la prefazione all’instant book “Joe” distribuito dalla “Fondazione Santina” per la collana “Volti di speranza” (Velar Marna edizioni). Il volume raccoglie il racconto del vescovo di Garissa, in Kenya, mons. Joseph Alessandro, sulla strage del gruppo islamista di Al-Shabaab che poco più di due anni fa, nel giorno del Giovedì Santo, provocò la morte di 148 studenti universitari cristiani. Luca Collodi ha chiesto a mons. Dario Edoardo Viganò come possiamo ricordare i martiri cristiani nella giornata dedicata alla Passione del Signore:

R. – Siamo nel cuore della testimonianza, una testimonianza intesa come martirio. Siamo nel dramma di tanti fratelli e di tante sorelle che ancora oggi muoiono confessando il nome di Gesù Signore. Credo che oggi, Venerdì Santo, ricordare i martiri cristiani significhi condividere con loro l’angoscia della solitudine, sperimentare con loro l’arsura, sperimentare il fatto che la gola si brucia quando è irritata dalla sabbia, che ti toglie il respiro, che porti nel corpo i segni della violenza brutale dell’odio, della morte che continua a essere seminata … In quel momento di abbandono, però, nasce nel cuore il “sì”, nasce la partecipazione a qualcosa che diventa nuovo. Gesù è un seme che muore e per questo diventa vita nuova. Quindi, qualcuno ridona il respiro, fa intravedere il senso del dolore, riporta la vita perché, come dice Schmemann, “un martire è colui per il quale Dio non è un’altra è l’ultima possibilità di mettere fine al terribile dolore; Dio è la sua stessa vita e quindi ogni cosa nella sua vita va verso Dio, ascende nella pienezza dell’amore”.

D. – Nel libro “Joe” si parla del campo profughi più grande del mondo, il campo di Dadaab nella diocesi di Garissa – in Kenya – dove vivono anche profughi cristiani in fuga dalla violenza, perseguitati. Sono i segni del martirio della Chiesa di oggi?

R. – Certamente. Penso anche a Mosul, dove appunto il vescovo Abel Nona, che è profugo insieme ad altri 100 mila della Piana di Ninive, diceva: “A Mosul abbiamo lasciato tutto, ma non abbiamo perso ciò che di più prezioso ci era rimasto, e cioè la nostra fede”. Ecco, credo allora che i fotogrammi del campo di Dadaab, a Garissa, come i fotogrammi di tanti altri campi in altrettanti Paesi, siano i fotogrammi di una persecuzione che è sempre più globalizzata, come dice Papa Francesco. E questi fotogrammi si susseguono, mentre ci inchiniamo davanti al sacrificio di tanti fratelli per i quali anche una pallottola si trasforma in dono per amore. Dunque, oggi contempliamo il Volto di Cristo crocifisso e su quel Volto vediamo i tratti di quei tanti volti dei testimoni cristiani di oggi. Quindi è una preghiera per loro, una preghiera per le loro comunità ed è anche un’invocazione a Dio perché la pace sgorghi nuovamente da questo sangue di martiri.

D. – Nel campo profughi e nella comunità cristiana di Garissa c’è una Chiesa che continua a versare sangue. E’ un segno profetico anche per la Chiesa egiziana che Papa Francesco visiterà a fine aprile?

R. – Sì, certamente, perché il sangue di Cristo assume in sé la sofferenza di tutti gli uomini e di tutte le donne, anche del popolo egiziano. Credo che questo viaggio sarà un incontro davvero grande con una comunità variegata, una comunità fatta di copti, di ortodossi, di cattolici, di musulmani … ebbene, tutti, insieme a Papa Francesco per pregare e per invocare il dono della pace. E credo che il popolo e le Chiese presenti in Egitto, sapranno testimoniare che dove il cuore è aperto all’azione di Dio, pace, condivisione e amore sono possibili anche contro ogni apparente possibilità.








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