2017-06-19 06:07:00

Nati da Abramo: in un libro, uno dei modi di vivere il dialogo


Un’ebrea, un cristiano e un musulmano: sono Myrna Chayo, Paolo Branca e Moulay Zidane El Amrani, tre docenti universitari che nel nuovo libro “Nati da Abramo”, edito da Marietti, danno prova di come vivano concretamente il dialogo interreligioso e interculturale. A caratterizzare i rispettivi saggi, con l'introduzione di Franco Cardini, la convinzione di come sia possibile superare le molte ristrettezze solitamente prevalenti attorno a questo tema. Giada Aquilino ha intervistato Paolo Branca:

R. – E’ un libro sulla relazione tra persone di origine diversa ma che condividono la stessa visione, gli stessi ideali, lo stesso impegno. Con Myrna Chayo è una storia che va avanti da decenni: è stata una delle mie prime professoresse di lingua araba, ebrea nata ad Aleppo, che poi ha dovuto lasciare il suo Paese di origine per i conflitti mediorientali. Invece Moulay Zidane El Amrani, conoscenza più recente, è un marocchino che vive in Italia e lavora nel campo della mediazione interculturale.

D. – Avvicinarsi non significa perdere la propria identità, scrive proprio Myrna Chayo: cosa comporta tale riflessione?

R. – Myrna è stata molto fedele sia alle sue radici ebraiche sia alla sua formazione linguistica e letteraria araba, quindi senza sentire queste cose in contraddizione; e ha una formazione anche in lingua francese. Quindi è una sorta di equilibrio di identità molteplice che ci testimonia nelle pagine molto intense che ha scritto, dove traspare tutta la fatica, diciamo così, del destino di lei e del suo popolo nella storia recente.

D. – Lei sottolinea un concetto espresso anche dal Papa: non c’è dialogo senza un autentico ascolto. Il dialogo interreligioso, visto come relazione, oggi come avviene?

R. - Si fa molto a livello istituzionale: i rappresentanti è giusto che si incontrino anche per dare l’esempio e mostrare una via. Molto meno si fa forse nel quotidiano, dove le persone vivono accanto l’una con l’altra però spesso non hanno gli strumenti per affrontare questa pluralità, che comunque è già un fatto. Nei mille oratori della diocesi di Milano, ad esempio, il 25 per cento dei frequentatori è rappresentato da musulmani che vanno a fare i compiti e a giocare a pallone. Però non so fino a che punto questa convivenza arrivi anche a essere una conoscenza reciproca più approfondita, più articolata. E purtroppo siamo vittime di un sistema mediatico che ci dà spesso solo le brutte notizie: quindi magari ogni anno c’è una lunga polemica sul presepe e non c’è assolutamente alcuna notizia riguardo questa convivenza quotidiana che mi pare, invece, significativa.

D. – In questo quadro, lei nota che in un mondo ampliato in continuazione da informazioni e dati e in cui siamo sempre connessi, poi la capacità di ammirare un altro da sé è qualità rara: perché?

R. – Probabilmente perché anziché conoscenza, abbiamo informazioni. Siamo bombardati da informazioni ma non ci vengono dati gli strumenti per interpretarle e spesso sono parziali, soltanto di uno o dell’altro estremo. Dire che va bene e che bisogna aprire le porte a tutti è esagerato e dire che dobbiamo difenderci e cacciare gli “invasori” è esagerato lo stesso. In mezzo ci sta tutta la mediazione della gestione consapevole e prudente ma anche coraggiosa di una realtà che ci trova impreparati.

D. – In un momento in cui in Italia si discute lo ius soli, El Amrani parla di giovani musulmani italiani nati e cresciuti in questo Paese eppure, dice, l’Europa conosce ma non riconosce l’islam. A che punto siamo?

R. – Purtroppo ho paura che stiamo facendo addirittura dei passi indietro: i grandi conflitti e il grande caos del Medio Oriente e del Nord Africa ci impressiona, ci fa paura, poi arriva a colpirci con questi atti estremi di violenza terroristica, quindi invece che scoprire la spiritualità, l’etica, l’estetica di un’altra grande tradizione religiosa, imparentata tra l’altro con la nostra e con quella ebraica, prevalgono i motivi di diffidenza se non addirittura di rigetto.

D. - Come superare allora questo stallo, questa non conoscenza dell’altro?

R. – Ci sono tanti livelli, ovviamente. Noi abbiamo dato una piccola testimonianza delle nostre vite. Siamo un po’ “addetti ai lavori” per il tipo di conoscenze, però posso dire che le persone che vengono alle conferenze, che seguono le lezioni generalmente apprezzano il nostro contributo, che non vuole essere una risposta, una soluzione, ma una serie di stimoli per approfondire, per riflettere seriamente e non schierarsi soltanto da una parte o dall’altra, come se la nostra opinione poi fosse l’unica cosa che conta.








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