2017-07-11 07:52:00

Charlie: l'Alta Corte inglese chiede prove, giovedì nuova udienza


Si è tenuta ieri a Londra la nuova udienza all’Alta Corte britannica per il caso del piccolo Charlie. Il giudice Nicholas Francis ha deciso per un altro rinvio per stabilire se far spegnere o no il respiratore artificiale che tiene in vita il bimbo affetto da una malattia rara considerata inguaribile dai medici inglesi. Il servizio di Sergio Centofanti:

C’è tempo ancora fino a giovedì. I genitori di Charlie - ha detto il giudice dell’Alta Corte - dovranno portare prove più che convincenti sulla validità delle nuove terapie per fargli cambiare idea e decidere il trasferimento all’estero. Non sarà qualche tweet a influenzarmi, ha spiegato.

La madre ha chiesto al giudice: “Se fosse suo figlio e ci fosse una possibilità di successo del 10% lei lo farebbe?”. E il magistrato ha risposto di sì. Ma il legale dell’ospedale in cui è ricoverato ha affermato che le prove portate dalla famiglia del bambino e relative alla terapia si riferiscono a patologie unicamente muscolari e non ai danni al cervello che il bimbo avrebbe e che le presunte evidenze da nuove ricerche provengono solo da laboratori e non da test su pazienti. L’avvocato dei genitori ha cercato invano di chiedere che il caso fosse assegnato ad un altro giudice.

“Siamo andati molto vicino a perderlo in due occasioni - ha detto la madre di Charlie - io spero solo in un altro miracolo e che abbia questa possibilità per vivere. Viviamo nella massima incertezza ma rimaniamo forti. Speriamo di andare avanti”. La donna ha aggiunto che il sostegno arrivato da Papa Francesco e dal presidente americano Donald Trump “finora ha salvato la sua vita”, insieme all’enorme mobilitazione popolare che ha suscitato questa vicenda. “Finché lui non molla – affermano i genitori di Charlie – anche noi non molliamo”.

Sulle prospettive dell'udienza di giovedì all'Alta Corte, ascoltiamo il giurista Alberto Gambino al microfono di Alessandro Guarasci:

R. – Vedo una difficoltà, perché, per come si è radicato il giudizio, qui l’unica via di uscita è che si riesca a dimostrare che esiste una terapia alternativa, magari anche sperimentale, che però abbia una sua efficacia. Non si verte sul tema dell’accudimento, ma il giudizio in Inghilterra è stato tutto radicato sul confronto fra una condizione di forte dolore e, per certi versi, irreversibilità, e dall’altra parte la speranza di una terapia. Se non arriva questa speranza di una nuova terapia, temo che i giudici inglesi declinino a questo punto la decisione.

D. – A questo punto non potrebbe però esserci un nuovo ricorso?

R. – No, non può esserci perché già si è formato un giudicato. Potrebbe esserci nella misura in cui effettivamente viene presentata una nuova terapia e si ritiene che i giudici dicano che non è efficace mentre si va davanti alla Cedu (Corte europea dei diritti umani) dicendo che lo è; ma non per riaprire il caso: solo limitatamente a questo aspetto.

D. – C’è qualche possibilità che su casi di questo tipo in futuro possano intervenire anche organismi sovranazionali come l’Onu? Andrebbero un po’ più codificati questi casi?

R. – È difficile codificare questi casi: sono casi che dovrebbero risolversi nel dialogo tra medico, paziente e familiari. Del resto lo stesso giudice inglese in primo grado ha detto, rammaricato, che non avrebbe voluto che questo caso giungesse fino alla Corte, ma che in realtà doveva e dovrà in futuro risolversi in questo dialogo tra paziente, familiari e medico.








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