“Il Medio Oriente è tutto frammentato, le guerre hanno decimato le popolazioni, la presenza cristiana è ormai ridotta a numeri decimali. In Siria, dove la guerra sembra volgere alla conclusione, la sfida più grande è convincere le persone a ritornare, a rientrare nelle loro case. Ma le prospettive sono incerte, le vite sono da ricostruire, nulla sarà come prima. Ci sono iniziative lodevoli portate avanti dalle chiese locali, dai francescani, dai gesuiti, dai salesiani. Ma non basta. Molti cristiani attendono di emigrare definitivamente, come testimoniato da tanti giovani iracheni sfollati con i quali ho avuto modo di parlare”. Lo ha detto ieri mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, durante il suo intervento al Meeting di Rimini, sul tema “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”.
I cristiani sono chiamati ad evangelizzare e a testimoniare il Vangelo
Per mons. Pizzaballa - riferisce l'agenzia Sir - “non basta ricostruire, ma serve
dare un orientamento. Legare la nostra speranza e il nostro futuro a soluzioni
politiche o sociali creerà solo frustrazione – ha aggiunto l’amministratore
apostolico, citando le parole di un giovane palestinese da lui incontrato – Ciò
che salverà il cristianesimo sarà il radicamento in Cristo. I cristiani sono
chiamati ad evangelizzare e a testimoniare il bello, il buono e il vero che c’è nel
Vangelo e nella Tradizione, senza lamentarsi per quello che è stato perduto”.
Bisogna essere capaci di un annuncio comprensibile e attraente
"Non serve – ha spiegato mons. Pizzaballa – parlare di valori cristiani senza
dire che Cristo è ciò che di meglio si può incontrare. Niente muri che separano
perché non c’è nulla che non possa essere valorizzato dall’esperienza del Vangelo”.
Che è un’esperienza “grande” perché “è desiderio di speranza”. “I nostri padri con
questo desiderio hanno costruito cattedrali e fatto tutto ciò che noi vediamo. Ciò
che facciamo deve essere caratterizzato dallo stile cristiano con un annuncio e una
proposta che troverà espressione nella vita civile, sociale, politica, economica.
È il modo cristiano di dire che Cristo si è fatto uomo. Riconoscere la gloria di Dio
nel quotidiano".
Fare menoria per risvegliare il desiderio di Cristo
"Quello che conta è la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra.
Fare memoria, dunque”, ha concluso mons. Pizzaballa, “non per nostalgia ma per risvegliare
il desiderio. È il modo con il quale i nostri padri hanno testimoniato che si può
vivere con slancio, con soddisfazione”. E bisogna trovare i modi per comunicare
tale bellezza, “perché l’uomo contemporaneo, inconsapevolmente, sta attendendo
tale ‘buona notizia’, che lo rivela a sé stesso”.
Il muro israeliano è una vergogna
Nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri mattina al Meeting di Rimini mons
Pizzaballa ha affermato che “il muro israeliano è una vergogna, e resta tale. È
una ferita nella storia, nella geografia, nella vita delle persone, un simbolo dolorosissimo
della situazione incomunicabilità tra israeliani e palestinesi, della paura,
della mancanza di prospettive e di visione delle due parti”. “Ci sono generazioni
di palestinesi che non sono mai state dall’altra parte del muro, e lo stesso vale
per gli israeliani – ha affermato l’arcivescovo -. È un segno della triste situazione
nella quale ci troviamo oggi”.
Il dialogo tra israelianie palestinesi è in una fase stagnante
“In questo momento – ha ammesso mons. Pizzaballa – non c’è dialogo tra israeliani
e palestinesi, non abbiamo davanti grandi scenari e nemmeno grandi visioni. Siamo
in una fase stagnante”. A pesare in modo particolare è “l’ambiguità,
non c’è né pace, né guerra, e questa sta deteriorando la situazione. L’unica
via salvezza è lavorare nelle piccole realtà in attesa che la comunità internazionale
faccia qualcosa”.
Il nodo della crisi tra israeliani e palestinesi è Gerusalemme
"Uno dei nodi, se non “il problema” della crisi tra israeliani e palestinesi è Gerusalemme:
finché ci sarà qualcuno, israeliano o palestinese, che rifiuta il legame dell’altro
alla città santa – ha ribadito l’amministratore apostolico – sarà un problema. A
Gerusalemme ebrei, cristiani e musulmani devono sentirsi a casa loro. E perché
ciò accada devono essere accolti tutti. In questo momento i fatti
non vanno in questa direzione purtroppo. Compito dei leader religiosi e dei
politici è di smettere di ritenere Gerusalemme come esclusivamente propria ma proprietà
aperta a tutti per condividerne l’appartenenza”.
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