2017-08-26 14:00:00

Scontri in Myanmar. Suu Kyi: il terrorismo è arrivato nel Paese


di Cecilia Seppia

“Le parti coinvolte negli scontri tra  militanti Rohingya armati e forze di sicurezza nello stato Rakhine, in Myanmar, dovrebbero optare per il dialogo e deporre le armi. Chiediamo a tutti di astenersi dalla violenza, proteggere i civili, ripristinare la legge e risolvere i problemi con mezzi pacifici”.  E’ l’appello di Renata Lok-Dessallien, coordinatore delle Nazioni Unite nel Paese, all’indomani dei combattimenti esplosi tra polizia e miliziani di etnia Rohingya, nel distretto di Maung Taw, nell'estremo Nord dello Stato vicino al confine con il Bangladesh, che hanno provocato 71 morti e 11 feriti. La dinamica dell’attacco resta incerta ma secondo quanto dichiarato dai media governativi oltre 200 ribelli poco dopo la mezzanotte hanno preso d’assalto, con fucili automatici e machete, 24 postazioni di polizia e una caserma dell’esercito, provocando la risposta immediata dell’esercito regolare e delle forze di sicurezza.

La maggior parte delle vittime, 59 per l’esattezza, è rappresentata proprio dai miliziani. Tra gli altri ci sono 11 poliziotti, un soldato e un funzionario. Di fatto si tratta dell’attacco più grave dall’ottobre scorso, quando un'operazione simile su scala più ridotta aveva portato l’esercito del Myanmar a lanciare dure operazioni di rastrellamento. Il governo ha condannato duramente l’attacco da parte dei "militanti bengalesi" e il capo dell'esecutivo Aung San Suu Kyi ha espresso timore che il terrorismo sia ormai definitivamente entrato nel Paese. L’azione è stata infatti rivendicata dall’esercito di Salvezza Rohingya di Arakan (Arsa) che ha dichiarato di voler vendicare l’ulteriore giro di vite imposto "al popolo più perseguitato del mondo". Ma secondo Cecilia Brighi dell’associazione ‘Italia-Birmania insieme’, esperta dell'area, l’Arsa non è altro che un gruppo terroristico di matrice islamista, annidatosi nell’ultimo anno all’interno della minoranza Rohingya, probabilmente finanziato dall'Arabia Saudita e in parte dall'esercito stesso del Myanmar.

Proprio ieri, una commissione nominata dal governo e guidata dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan ha pubblicato il suo rapporto sul Rakhine, lo Stato dove vive questa minoranza musulmana, raccomandando non solo di adoperarsi per dare la cittadinanza ai Rohingya, ma per promuovere misure di sviluppo economico e di giustizia sociale e risolvere la crisi che attanaglia questo Paese. “E’ la povertà estrema – afferma la Brighi – che ha inasprito le contrapposizioni tra poveri buddisti e poveri musulmani… C’è inoltre l’assurda convinzione che i musulmani che attualmente sono una minoranza, facendo mediamente più figli degli altri, possano diventare maggioranza e rivendicare più diritti e privilegi”.

Di fatto la situazione nel Paese è ancora gravissima e nemmeno la fine, dopo 49 anni, della dittatura militare, con l'insediamento mel marzo 2016 di un governo guidato dalla premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, sia pure con la supervisione dei generali su alcuni settori, ha portato a un allentamento della repressione nei confronti dei Rohingya. Questo popolo (un milione sui 54 milioni di abitanti del Myanmar, per il 90 per cento buddisti) è pesantemente discriminato: una legge del 1982 lo priva infatti della cittadinanza e di altri diritti fondamentali. Non sono considerati appartenenti a nessuno dei 35 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti e perciò non hanno nemmeno la possibilità di votare. Apolidi, anche se alcuni vivono in Myanmar da generazioni, formano una “casta” invisibile di profughi interni, che non ha accesso al mondo del lavoro e solo un accesso parziale all’assistenza sanitaria. Inoltre anche la loro pratica religiosa è sotto stretta sorveglianza. Nell’ultimo anno almeno 72.000 Rohingya sono fuggiti in Bangladesh ma nessuno vuole accogliere queste imbarcazioni piene di disperati e si parla anche di un’isola dove confinarli.

Per loro in più occasioni si è levata la voce di Papa Francesco, l’ultima volta l’8 febbraio scorso al termine dell’udienza generale del mercoledì: “io vorrei pregare con voi, oggi - ha detto il Pontefice - in modo speciale per i nostri fratelli e sorelle Rohingya: cacciati via dal Myanmar, vanno da una parte all’altra perché non li vogliono, nessuno li vuole… E’ gente buona, gente pacifica. Non sono cristiani, sono buoni, sono fratelli e sorelle nostri! E’ da anni che soffrono. Sono stati torturati, uccisi, semplicemente perché portano avanti le loro tradizioni, la loro fede musulmana”. Sempre per Cecilia Brighi la Chiesa ha un ruolo importantissimo per la costruzione del dialogo in questa regione. 

Da un report pubblicato di recente dall’ufficio dei diritti umani delle Nazioni Unite circa 220 testimoni hanno raccontato di “uccisioni di bambini, donne e anziani, stupri e violenze sessuali sistematiche e su larga scala, distruzione intenzionale di cibo e fonti di sostentamento”, tanto da far temere una sorta di pulizia etnica. Gli abusi nei confronti dei Rohingya hanno origine da 50 anni di dura dittatura militare (l’esercito controlla ancora il 25% del parlamento, i tre ministeri della Difesa, Interni, Affari di Confine e il Consiglio per la Difesa e la Sicurezza nazionale) che ha sempre represso le minoranze etniche buddiste e musulmane per raggiungere i suoi scopi, tra cui lo sfruttamento delle ricchezze naturali.

Ascolta e scarica il Podcast con l'intervista integrale a Cecilia Brighi 








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