di Massimiliano Menichetti
Si è chiuso, dopo nove udienze e quasi tre mesi, con la condanna di Giuseppe Profiti e l’assoluzione di Massimo Spina, il processo in Vaticano per la distrazione di fondi della Fondazione Bambino Gesù. I giudici hanno ritenuto l’ex presidente dell’ospedale Bambino Gesù e dell’omonima fondazione, responsabile di abuso d’ufficio e non di peculato, condannandolo ad anno di reclusione, con sospensione condizionale della condanna per cinque anni; alla interdizione temporanea dai pubblici uffici per un anno e alla multa di 5mila euro. In sostanza i giudici, dopo la Camera di consiglio, hanno ritenuto che Profiti, che dovrà pagare anche le spese processuali, abbia agito al di fuori degli schemi normativi a lui consentiti, ma non si sia appropriato di somme per procurare vantaggio a se stesso o altri, come previsto per il reato di peculato. Assoluzione piena invece per l’ex tesoriere della Fondazione, Massimo Spina, “per non aver commesso il fatto”.
Arringhe e repliche
Questa mattina si è tenuta l’arringa degli avvocati d’ufficio, dopo la requisitoria,
lunedì scorso, del Promotore di Giustizia Aggiunto, Zannotti. Quindi le ulteriori
repliche e la dichiarazione spontanea di Profiti. Antonello Blasi, difensore d’ufficio
dell’ex presidente della Fondazione, è tornato a chiedere al Tribunale che in via
pregiudiziale fosse dichiarato il difetto di giurisdizione e nel merito ha domandato
per il proprio assistito una sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”.
Nessun silenzio, opacità o mistero
L’avvocato di Profiti ha respinto, nella sua arringa, l’intero impianto accusatorio
dell’Ufficio del Promotore di Giustizia, ribadendo che “non ci sono né silenzi, né
opacità, né misteri” e che “non sono configurabili gli elementi del peculato”. “Profiti
- ha detto - non ha usato denaro in violazione delle regole dello statuto” e tale
investimento è stato nella misura del 5%, quindi non prevalente rispetto alle disponibilità
complessive della Fondazione.
Inutili silenzi
Ha negato la qualifica di pubblico ufficiale in capo al suo assistito e difeso l’operatività
dell’ex presidente, prevista dallo statuto della Fondazione che “non è ente della
Santa Sede”. “Manca un movente”, ha sostenuto, ma ci sono “silenzi inutili” come quelli
della deposizione del direttore dell’Autorità d’Informazione Finanziaria, Tommaso
Di Ruzza, o quelli della presidente dell’ospedale Bambino Gesù, Mariella
Enoc, che “si è chiusa a riccio” su alcune domande, come quella riguardante “le
strategie attuali di fundraising”.
Mala gestio
Ha parlato di mala gestio e non di peculato in riferimento “all’eccesso di potere”
ipotizzato da Zannotti, che porterebbe tutto su un piano "amministrativo - ha detto
- e non penale”. Sulla questione “della logica e della imparzialità” ha spiegato che
non si videro i frutti dell’investimento fatto, “quindi i ritorni”, poiché Profiti
si dimise dalla Fondazione e Enoc non volle interessarsi a quel progetto, “cambiando
impostazione”.
Nessuna spesa fu investimento
Blasi ha anche precisato che “la spesa effettuata fu il 5%” delle risorse a disposizione,
molto al di sotto del consentito. Ha sottolineato più volte che in merito alla ristrutturazione
dell’appartamento del Cardinale Segretario di Stato emerito, “non ci fu alcuna spesa,
ma si trattò di un investimento”. “Il committente - ha ribadito - era il Governatorato,
come si evince dai documenti”, il quale ha tratto “grande vantaggio” dalle ristrutturazioni.
La “Fondazione era un mero soggetto finanziatore”. Ha parlato di “due contratti/ordinativi”
esibiti dal Governatorato” e di “un capitolato approvato, mai trovato, ma che senza
il quale nulla si sarebbe potuto fare”.
Tanto rumore per nulla
“Nessuna singolarità o anomalia nelle procedure - ha continuato - come asserito dall’ingegnere
Marco Bargellini, ma solo tanto rumore per nulla”. Perché “il Cardinale Bertone ha
scelto la ditta”, “si è impegnato a coprire le spese” e il Governatorato “conosceva
la ditta Castelli Re fin dal 1920”. Blasi ha comunque voluto precisare che il noto
versamento dei 150mila euro, emesso del Cardinale Bertone, fu “solo un atto di generosità
che non ha alcun nesso con i pagamenti”.
Accresciuto patrimonio della Chiesa
“L’investimento ha avuto una destinazione pubblica, ed ha accresciuto il patrimonio
della Chiesa - ha evidenziato - non c’è stata distrazione di risorse per ricavare
un profitto per se o altri”, come dimostrato “dalle lettere tra Profiti e il Cardinale
Bertone”. Nessun arricchimento illecito neanche per Bandera che “fatturava ogni pagamento”.
Ha asserito poi che “non c’è alcuna sovrapposizione di date sulle fatture relative
all’appartamento assegnato al Cardinale e alle parti comuni di Palazzo San Carlo”
ed ha chiarito che la Fondazione non avrebbe “mai potuto erogare fondi se non dopo
l’autorizzazione del Governatorato”.
Il tugurio da ristrutturare
Nella sua arringa l’avvocato Alfredo Ottaviani ha subito precisato che “l’attico del
Cardinale Bertone non è un attico, ma un appartamento e che non è suo, ma del Governatorato”.
Ha aggiunto che il "Papa non poteva sapere" in quali condizioni si trovasse dell’appartamento
assegnato al porporato. Il difensore ha parlato di “tugurio”, in relazione allo stato
dell'immobile, in cui, “come anche hanno spiegato l’imprenditore Bandera e l’ingegnere
Bargellini, si è dovuto lavorare molto, perché c’erano gli impianti da rifare, anche
alcuni muri portanti da buttare giù”. Dei 400 metri quadrati di superficie, “quel
che rimaneva per il Cardinale - ha incalzato Ottaviani – erano circa 150mq, poiché
oltre il 60% era destinato alle parti comuni, come la cappella e l’area delle suore”.
Il Cardinale vittima della vicenda
Per l’avvocato è il Cardinale Segretario di Stato “la vittima di questa vicenda”,
anche perché “ha pagato di tasca sua un bene” e avendo “83 anni, quando la vita media
è di 83 anni e 8 mesi, secondo le statistiche non avrebbe il tempo di ammortizzare
la spesa”. Ha citato la lettera inviata al Tribunale, agli atti e mai letta pubblicamente,
nella quale il porporato “non oppone il segreto di Stato”, ma invece “spiega fatto
per fatto”. Nella missiva afferma di aver “scritto al Governatorato in relazione ai
lavori da effettuare nell’appartamento”, ma di aver ricevuto come risposta che non
c’erano fondi disponibili, “un muro”. “Risposta Fantasiosa” ha osservato Ottaviani
visto che era stato “il Santo Padre ad indicare al cardinale di rivolgersi al governatorato”,
visto che doveva lasciare l’appartamento dove si sarebbe insediato il Cardinale Parolin,
nuovo Segretario di Stato.
Pressione per la partecipazione alle spese
Secondo l’avvocato a questo punto “il Cardinale cerca la ditta che conosce”, ovvero
la Castelli Re, per contenere la spesa dei lavori di ristrutturazione. Poi “si rivolge
a Profiti”. Ottaviani riferisce che nella lettera, Bertone scrive di essere stato
“pressantemente invitato alla partecipazione alle spese”. “Ma chi può esercitare
pressioni su un cardinale Segretario di Stato emerito - ha chiesto l'avvocato - se
escludiamo Rocket Man, Trump e Putin? Sono i fatti che lo hanno pressato”.
Il contratto non solo scritto
Sul contratto di appalto ha ribadito che “può essere anche orale” e non solamente
scritto. Ha respinto la correità del suo assistito, sia perché il reato a suo dire
“non c’è”, sia perché “anche se si configurasse un reato, non averlo denunciato non
configurerebbe la correità”. Per l’avvocato lo stesso Profiti ha agito “nel sistema
degli ordini”, ha solo eseguito un incarico assegnatogli da una superiore autorità.
Nessun potere di firma
Ha nuovamente precisato che “Spina non aveva potere di firma” elencando tutte le dichiarazioni
testimoniali in tal senso. Poi ha detto che “quando il Papa chiede di fare una cosa
non è solo un ordine esecutivo, ma è una legge” ed ha affidato al Tribunale tale considerazione
in relazione ai fatti di causa. Quindi citando la "parabola dei talenti" si è riferito
alla presidente del Bambino Gesù, Mariella Enoc, la quale avrebbe pensato: “Io non
rischio, i miei talenti li nascondo". In maniera opposta agì, per Ottaviani, l’ex
presidente Profiti.
Il protocollo della Fondazione
Dopo la breve replica del Promotore di Giustizia Aggiunto, Zannotti, che ha confermato
l’impianto accusatorio e le conseguenti richieste, si sono svolte le ulteriori repliche
degli avvocati, i quali hanno ribadito l’esistenza in Fondazione del “protocollo”,
contrariamente a quanto affermato dalla presidente Enoc, durante la sua deposizione.
99,97% dei fondi girati all’ospedale
Elemento questo ripeso anche da Giuseppe Profiti nella sua dichiarazione spontanea,
il quale ha anche voluto precisare che ha “svolto il mandato di presidente della Fondazione
a titolo gratuito”, che “il 99,97% dei fondi raccolti venivano girati all’ospedale
Bambino Gesù e che neanche 1 euro è stato impiegato nell'operazione d’investimento”
che ha comportato la ristrutturazione della casa assegnata al porporato.
Nessun divieto infranto
Ha ribadito che “la spesa per investimenti è destinata a promuovere utilità per più
esercizi” e che “il rischio è implicito in qualunque impresa”. “Non ho infranto alcun
divieto statutario - ha proseguito - ma posto in essere un’operazione strumentale
allo svolgimento di una attività della Fondazione, al pari dell’ospedale Bambino Gesù
che ristruttura della case famiglia”.
Bilanci certificati
Ha tenuto a far verbalizzare anche che i bilanci durante il suo mandato sono stati
tutti certificati “senza rilevo alcuno”, che “non c’è alcun collegamento con la ristrutturazione
dell’appartamento e la perdita asserita dalla presidente Enoc, ma che tale ammanco
deriva “dall’insussistenza del credito promesso dalla New Deal” di Bandera.
La raccolta fondi
Ha precisato anche che “il programma di attività della Fondazione veniva allegato
al bilancio, per formare oggetto di valutazione da parte del Cda”, e dimostrato, carte
alla mano, come durante il suo mandato la raccolta fondi avesse avuto un incremento
medio, nel triennio, pari al 50,2% ed un decremento, dal 2015, pari al 40%.
Il vantaggio del Governatorato
Profiti ha desiderato sottolineare, ancora una volta, che “l’idea del progetto” fu
sua e “non del Cardinale” e di non ritenersi il "committente” dei lavori. Poi ha rimarcato
che “diversamente da quanto detto precedentemente in sede di deposizione, il vantaggio
conseguente alle opere di ristrutturazione, per come desumibili dalle scritture contabili,
in capo al Governatorato è pari a 521,712 euro e non a 560mila”. Nessuna dichiarazione
spontanea invece, prima della Camera di consiglio, da parte di Massimo Spina, che
si è limitato a ringraziare il Tribunale “per il lavoro e l’attenzione” avuti.
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